Quel generoso mio guerriero interno,
Ch’armato in guardia del mio core alberga
Pur come duce di guerrieri eletti,
A lei, ch’in cima siede ove il governo
Ha di nostra natura e tien la verga,
Ch’al ben rivolge gli uni e gli altri affetti,
Accusa quel ch’a i suoi dolci diletti
L’anima invoglia, vago e lusinghiero:—
Donna, del giusto impero
C’hai tu dal ciel, che ti creò sembiante
A la virtú che regge
I vaghi errori suoi con certa legge,
Non fui contrario ancora o ribellante,
Né mai trascorrer parmi
Sí che non possa a tuo voler frenarmi.
Ma ben presi per te l’armi sovente
Contra il desio, quando da te si scioglie
Ed a’ richiami tuoi l’orecchie ha sorde,
E, qual di varie teste empio serpente,
Sé medesmo divide in molte voglie
Rapide tutte e cupide ed ingorde,
E sovra l’alma stride e fischia e morde,
Sí che dolente ella sospira e geme
E di perirne teme.
Queste sono da me percosse e dome,
E molte ne recido,
Ne fiacco molte e lui non anco uccido:
Ma le rinnova ei poscia e, non so come,
Via piú tosto ch’augello
Le piume o i tronchi rami arbor novello.
Ben il sai tu, che sovra il fosco senso
Nostro riluci sí da l’alta sede
Come il sol che rotando esce di Gange;
E sai come il desio piacere intenso
In quelle sparge, ond’ei l’anima fiede,
Profonde piaghe e le riapre e l’ange;
E sai come si svolga e come cange
Di voglia in voglia al trasformar d’un viso,
Quando ivi lieto un riso
O quando la pietà vi si dimostra,
O pur quando talora
Qual vïola il timor ei vi colora,
O la bella vergogna ivi s’inostra;
E sai come si suole
Raddolcir anco al suon de le parole.
E sai se quella che sí altera e vaga
Si mostra in varie guise, e ’n varie forme
Quasi nuovo e gentil mostro si mira,
Per opra di natura o d’arte maga
Sé medesma e le voglie ancor trasforme
De l’alma nostra che per lei sospira.
Lasso! qual brina al sole o dove spira
Tepido vento si discioglie il ghiaccio,
Tal ancor io mi sfaccio
Spesso a’ begli occhi ed a la dolce voce;
E, mentre si dilegua
Il mio vigor, pace io concedo o tregua
Al mio nemico; e quanto è men feroce
Tanto più forte il sento,
E volontario a’ danni miei consento.
Consento che la speme, onde ristoro
Per mia natura prendo e mi rinfranco
E nel dubbio m’avanzo e nel periglio,
Torca da l’alto obietto a’ bei crin d’oro
O la raggiri al molle avorio e bianco
Ed a quel volto candido e vermiglio;
O la rivolga al varïar del ciglio,
Quasi fosse di lui la spene ancella
E fatta a me ribella.
Ma non avvien che il traditor s’acqueti;
Anzi del cor le porte
Apre e dentro ricetta estranie scorte
E fòra messi invia scaltri e secreti;
E, s’io del ver m’avveggio,
Me prender tenta e te cacciar di seggio.—
Cosí dic’egli, al seggio alto converso
Di lei che palma pur dimostra e lauro;
E ’l dolce lusinghier cosí risponde:—
Alcun non fu de’ miei consorti avverso
Per sacra fame a te di lucido auro
Ch’ivi men s’empie ov’ella piú n’abonde;
Né per brama d’onor ch’i tuoi confonde
Ordini giusti. E s’io rara bellezza
Seguii sol per vaghezza,
Tu sai ch’a gli occhi desïosi apparse
Donna cosí gentile
Nel mio piú lieto e piú felice aprile
Che ’l giovinetto cor súbito n’arse:
Per questa al piacer mossi
Rapidamente e dal tuo fren mi scossi.
Forse, io no ’l niego, incauto allor piagai
L’alma; e se quelle piaghe a lei fûr gravi,
Ella se ’l sa tanto il languir le piace,
E per sí bella donna anzi trar guai
Toglie, che medicine ha sí soavi,
Che gioir d’altra, e ne’ sospir no ’l tace.
Ma questo altero mio nemico audace,
Che per leve cagion, quando piú scherza,
Sé stesso infiamma e sferza,
In quella fronte piú del ciel serena
A pena vide un segno
D’irato orgoglio e d’orgoglioso sdegno
E d’avverso desire un’ombra a pena,
Che schernito si tenne,
E del dispregio sprezzator divenne.
Quanto ei superbí poscia e ’n quante guise
Fu crudel sovra me, già vinto e lasso
Nel corso e per repulse isbigottito,
Il dica ei che mi vinse e non m’ancise;
Se ’n glorii pur ch’io glorïare il lasso.
Questo io dirò, ch’ei folle, e non ardito,
Incontra quel voler che teco unito
Tale ognor segue chiare interne luci
Qual io gli occhi per duci,
Non men che sovra ’l mio l’armi distrinse;
Perché ’l vedea sí vago
De la beltà d’una celeste imago
Come foss’io, né lui da me distinse;
Né par che ben s’avveda
Che siam qua’ figli de l’antica Leda.
Non siam però gemelli: ei di celeste,
Io nacqui poscia di terrena madre;
Ma fu il padre l’istesso, o cosí stimo:
E ben par ch’egualmente ambo ci deste
Un raggio di beltà, che di leggiadre
Forme adorna e colora il terren limo.
Egli s’erge sovente, ed a quel primo
Eterno mar d’ogni bellezza arriva
Ond’ogni altro deriva:
Io caggio, e ’n questa umanità m’immergo:
Pur a voci canore
Tal volta ed a soave almo splendore
D’occhi sereni mi raffino ed ergo,
Per dargli senza assalto
Le chiavi di quel core in cui t’essalto.
E con quel fido tuo, che d’alto lume
Scòrto si move, anch’io raccolgo e mando
Sguardi e sospiri, miei dolci messaggi.
Per questi egli talor con vaghe piume
N’esce, e tanto s’inalza al ciel volando
Che lascia a dietro i tuoi pensier piú saggi.
Altre forme piú belle ad altri raggi
Di piú bel sol vagheggia; ed io felice
Sarei, com’egli dice,
Se tutto unito a lui seco m’alzassi:
Ma la grave e mortale
Mia natura mi stanca in guisa l’ale,
Ch’oltre i begli occhi rado avvien ch’i’ passi.
Con lor tratta gl’inganni
Il tuo fedel seguace, e no ’l condanni.
Ma s’a te non dispiace, alta regina,
Che là donde in un tempo ambo partiste,
Egli rapido torni e varchi il cielo,
Condotto no, ma da virtú divina
Rapto, di forme non intese o viste;
A me, che nacqui in terra, e ’n questo velo
Vago d’altra bellezza, e non te ’l celo,
Perdona, ove talor troppo mi stringa
Con lui che mi lusinga.
Forse ancora avverrà ch’a poco a poco
Di non bramarlo impari,
E col voler mi giunga e mi rischiari
A’ rai del suo celeste e puro foco,
Come nel ciel riluce
Castore unito a l’immortal Polluce.—
Canzon, cosí l’un nostro affetto e l’altro
Davanti a lei contende
Ch’ambo li regge, e la sentenza attende.