S’è distanziata l’ombra dalla meridiana,
gira sul fuso il mondo e la sua ruota
—siffatti l’àncora ed il calcagno -
sulla prodaia, fissati come chiodi
flagrano capelluti sfagni.
Chiude gli occhi, tutto tace,
sulla provenda, plicata a dense strisce,
mansueta scorre l’anima
in un corpo di limace.
Senza riposo rotava il chiurlo,
girava sul pennone
come goccio l’astrolabio,
si salvò il pompelmo fra le rose,
in mare aperto il periplo a levante
decantava il blu di Prussia del piumaggio.
Dalla sediòla scambiò per apparenza
il pianto di cicale, di solito non liquefa la foglia la confidenza fatta,
come un sorriso di traverso
fa la pesta di caprini,
dall’abbaino, in disparte,
raffila un arrotino il disegno delle nasse.
In crogioli e matracci
distillava il senso delle cose,
temperava nel piatto la sua mela,
s’affacciavano nella controra,
come due occhi, gli orologi,
e non si sperde – dagli tempo –
sconnesso il solido in due punti...
scese a pennello il guscio sull’artista,
la rara convinzione di fragorose nuvole,
la mola che sfugge all’orma
di due distinte fragole.
Sa di sale– è già partita– l’onda disciolta come neve, dove la voce diventa bosco, insetto che disvuole l’acqua di garofani,
mutavano le triglie nell’acquaio,
la fibra dell’alga sulla scrivania.
Che fine ha fatto, disteso,
appollaiato sul ramo di camoscio,
adiacente all’ago della bussola
divorava fino all’ultima parola,
semmai disfece la coerenza
il polline sulla veranda,
s’aggiunse pure in là della pagliola
il cespo millefoglie di lattuga;
chissà se il cembalista suonerà
le prime sette note del notturno,
accresce in lui la netta meraviglia
di sfuse primavere nei bistrot,
nei graffiti sulle porte dei mètro.
Thea Matera