Feriti s’incurvano
gl’ossi della vela,
di due relitti, di franti ormeggi,
—intemerate gòrgoni -
sommersi nimbi in fiamme
d’impietrati scalmi,
dove sguernite file di spine dorsali
fendono mucciate sponde.
Riemerge a riva, intatta,
la statua dell’indolenza
si richiude la fenêtre ouverte
su fondine di lavezzo,
sul debito scontento,
ruba l’ombra all’immortale breccia
che dell’ulivo serra il respiro
tra le foglie.
Cadono ghiande da querce secolari,
greggi dileggiano smutate fiere
dove nevate mani conservano
su nebulati colli
mònadi di terra tra scomposte pieghe.
Dell’interrata stele
smuore l’acqua di tettoie
sulle vetrate unte,
in decussate cale
faci s’oscurano dell’Orsa...
Di che vita parli se evapora
la chioma di arboreti
nell’imballo di petunie,
spaghi di verdi lauri
sfuggono all’alberata?
Innumera il cantore
ammatassati nuclei di lucerne,
nereggiano su iemali stampi
la lunata doglia, la sueta direzione,
rinfiora il petalo che scivolò dagl’occhi...
E mi ricama il palmo la pioggia sulle porte,
l’avaro bacio della sconfitta
che nel distacco perse un dì
sul fianco del camaleonte.
Thea Matera ©