Ludovico Ariosto

Canzone lll

Amor, da che ti piace
Che la mia lingua parle
Della sola beltà del mio bel sole;
Questo a me non dispiace,
Pur che tu voglia darle
A tant’alto soggetto alte parole,
Che accompagnate o sole
Possano andar volando
Per bocca delle genti;
E con soavi accenti,
Mille belle virtù di lei narrando,
Faccian per ogni côre
Nascer qualche desío di farle onore.
    Sai ben che non poss’io
Parlarne per me stesso,
Chè la mia mente pur non la comprende;
Perch’ella è, come un Dio,
Da tutto il mondo espresso,
Ma non inteso, e sol sè stesso intende:
Il suo bel nome pende
Prima dal suo bel viso,
E dai celesti lumi
Pendono i suoi costumi;
Tal che, scesa qua giù dal paradiso
A tempo iniquo ed empio,
Fa di sè stessa a sè medesma esempio.
    Quando che agli occhi miei
Prima costei s’offerse,
Come stella ch’appare a mezzo ’l giorno;
Stupido allor mi fêi,
Perchè la vista scêrse
Cosa qua giù da fare il cielo adorno.
Benedetto il soggiorno
Ch’io faccio in questa vita;
Ove, s’ebbi mai noja.
Tutto è converso in gioja,
Vedendo al mondo una beltà compita;
Nella quale io comprendo
Quell’alme grazie che nel cielo attendo.
    Poi che quell’armonia
Giù nel mio cor discese,
Ch’uscío fra ’l mezzo di coralli e perle;
Entro l’anima mia
Il suon così s’apprese
Di quelle note, che mi par vederle,
Non che in l’orecchie averle.
O fortunato padre,
Che seminò tal frutto;
E tu che l’hai produtto,
Beata al mondo sopra ogn’altra madre;
E più beata assai,
Se quel ch’io scorgo in lei veder potrai!
    Ancor dirò più innante,
Pur ch’e’ mi sia creduto:
Ma chi nol crede possa il ver sentire.
Sotto le care piante
Più volte ho già veduto
L’erba lasciva2 a prova indi fiorire:
Vist’ho, dove il ferire
De’ suoi begli occhi arriva,
In valle, piaggia o colle
Rider l’erbetta molle,
E di mille color farsi ogni riva;
L’aër chiarirsi, e ’l vento
Fermarsi al suon di sue parole attento.
    Ben, sì come a rispetto
Dell’ampio ciel stellato
La terra è nulla, o veramente centro;
Così del mio concetto
Quello c’ho fuor mandato,
È proprio nulla a par a quel c’ho dentro.
Veggio ben ch’io non entro
Nel mar largo e profondo
Di sue infinite lode;
Che l’animo non gode
Gir tanto innanti, chè paventa il fondo:
Però lungo le rive
Va ricogliendo ciò che parla e scrive.
    So, Canzonetta mia, ch’avrai vergogna
Gir così nuda fuore;
Ma vanne pur, poichè ti manda Amore.

Note
1-Rimane ignota la gentildonna per la quale fa scritta questa Canzone. Il Barotti avverte ch’essa trovasi stampata, con poche e poco notabili differenze, tra le rime del Trissino, e si desidera nei manoscritti dell’Ariosto.
2- Parola di senso, sovra più altre, variabile. Qui per Rigoglioso di vegetazione.

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