Ludovico Ariosto

Canto secondo

1-Benchè da poi che ’l Redentor del mondo
Dimostrar1 volse un sol Dio trino ed uno,
Ogni idol falso* 1 rovinasse al fondo;
Pur fra’ Pagani ancor ne restò alcuno:
Che li* 2 altri Dei, eccetto il ver, secondo
Debbe di noi fedel creder ciascuno,
Erano di Pluton seguaci rei,
Che la gentilità chiamava Dei.
 
2- Ma per la morte, e pel misterio sacro
Dell’acerba passion del Verbo eterno,
Qual segnò i suoi di quel santo lavacro
Che lava in noi ogni peccato interno,
Restò a Plutone il mondo acerbo ed acro,
E ritrarse gli fu forza all’inferno;
Nè falso alcuno iddio restò a’ Cristiani,
Ma qualche illusïon fra li Pagani.
 
3- però a alcun di voi strano non paja
Se a Ferraguto quella ninfa apparve,
Qual si chiamava dell’altre primaja:3
O fusser corpi veri o finte larve,
Pur parea corpo quella ninfa gaja.
Se con qualche ragion debbo parlarve:
Non so come altro giudicar6 si possa,
Chè un spirto non si tocca in carne e in ossa.
 
4- Toccavasi ella e ragionar s’udiva,
E porse a quel baron*  lo illustre scuto;
A cui, da poi che ’l suo parlar finiva,
Rispose allor sagace Ferraguto:
—O sii donna mortale o eterna diva,
Eternamente ti sarò tenuto,
Che in dui perigli, fuor d’ogni speranza,
In l’un scuto mi desti, in l’altro stanza.
 
5-Ma qui7 se fai ch’a Venere io sia grato,
Nè mi trovi in amor tanto infelice,
Ch’io non vi fui già mai avventurato,
Pur ch’io vi fussi un tratto almen felice,
Io mi reputarei sempre beato.
Chè tanto un sol piacere a un miser vale,
Che gli rimette* 4 ogni passato male.
 
6- Ma non so, ninfa, se ragione o errore
Sia che sperar mi fa di questo poco:9
Come esser può che a quella Dea d’amore,
Che altrui suole infiammar, piaccia tal loco?
Esser non può che in umile liquore
Produr si possa e conservarsi il fôco,
Il fôco che più al cor d’ogni altro preme,
Chè mal pôn stare dui contrari insieme.
 
7—Ben mostri, alto baron, vivace ingegno,
Disse la dama, e razional discorso,
Che con la forza uniti ti fan degno
Di conseguir d’amor dolce soccorso:
Spera che fine arai al tuo disegno,
E alla sventura tua* 6 porrai il morso,
Quanto ad Amore e Venere si spetta;
Benchè tua mente in ciò dubbia e suspetta.
 
8- Ma dubitar non dêi; chè ’l fuoco pasce
In umido liquore e si conserva,
Come in voi il calor nativo nasce
In radicale umor, che in vita serva
Nel materno alvo l’uomo e nelle fasce;
E sempre umor da morte lo preserva;
E in la lucerna piccoletta fiamma
In olio e in altro umor s’avviva e infiamma.
 
9-Però Venere infiamma e si diletta
Di quello umor che sta col caldo insieme:
Anzi, nel mar, di spuma fu concetta
Venere, in cambio di genital seme.
La cosa non dirò, baron, perfetta,
Però che l’onestà la lingua preme;
Ed a una donna, ancor che meretrice,
Lo inonesto parlar sempre disdice.
 
10- Il viver di Saturno, e ciò che fece
Al padre suo, mi converría narrarte;
Ma questo ad uomo più che a donna lece:
Bastami a dir la più opportuna parte,
E che come la fiamma in olio o in pece,
Così in rumor stia il caldo, dimostrarte;
Nè ti sia cosa nova e inusitata,
Che una Najade a Vener sia dicata.
 
11- O felice colui che intender puote
Il secreto poter della natura!
O quante cose sono al mondo ignote
Che l’uomo di sapere ha poca11 cura;
E se fussero a noi palesi e note,
Procedería ciascun con più misura!—
—Da te ben resto chiaro e resoluto,—
Rispose a quella dama Ferraguto,
 
12- Ma prégoti, da poi che mi hai promesso
Favorire* 10 in amore i miei disegni,
Che quando un tanto don mi fia concesso
Di amar con frutto, me ne mostri segni;
Chè sempre dolse, poi che in speme è messo,
A cui come sperava non li avegni:
Sicchè, dama gentil, fa poi ch’io sappia
Quando tal grazia in mia persona cappia.—
 
13- Rispose allor la vezzosetta dama:
—Io sempre fui fedele a chi mi crede,
E Vener anco; e chi infedel la chiama,
Non ben dicerne12 quel ch’Amor richiede.
Fidelità conviensi a chi bene ama,
E dir si suol che Amor sempre vuol fede.
Ma acciò ch’in breve il tuo desir consegui,
Conviene che più oltre ancor mi segui.—
 
14- Rispose quel baron:—Guidami pure,
Se ben volessi, giuso ai regni stigi;
Chè disposto mi son, dama, condure
Dove ti piace pronto a’ tuoi servigi.—
Ma mi bisogna l’animo ridure
Dove lassai, io credo, Malagigi;
Il qual, se vi rimembra, in l’altro canto
Vi lassai con ragion giocondo tanto.
 
15- Io vi lassai di ciambra già partito
Della regina, e l’uno e l’altro lieto;
Chè tanto l’uno a l’altro era gradito,
Che ciascun di essi ne restava quieto:
Desidra la regina che finito
Presto sia il giorno al suo pensier secreto,
E sol la notte a lei felice aspetta;
Chè Amore è cieco, e notte gli diletta.
 
16- E senza altro pensare, un suo fidato
Accorto servitor chiamò quel giorno;
A cui disse:—Se sei, come hai mostrato,
Sempre nemico a chi mi vuol far scorno,
Prego che vadi più che puoi celato,
E Orlando trovi, cavaliero adorno,
E nostro capitan, se sai qual sia,
E questa gli darai da parte mia.—
 
17- E una lettera in mano al messo porse,
Che del suo amore il conte reavvisava.
Dopo molte proferte, il servo corse
Al finto non, ma al ver conte di Brava.
Il conte poi che del sigil si accorse,
La lettra prese, e altro non parlava;
Anzi, notando il servo, in man la piglia,
In atto d’uom che assai si meraviglia.
 
18 –Sciolsela, e prima sotto lesse
Il nome di chi a lui la scrive e manda,
Subito il resto a legger poi si messe,
Di tal tenore:—A te si raccomanda,
Conte, colei che per signor ti elesse,
E sol ti apprezza, e solo ti dimanda:
Prégati, come la notte passata,
Questa altra ancor ti sia raccomandata.
 
19- Rimase il conte alle parol’ sospeso,
E di notte non sa nè di che scriva;
Ma pur per conjettura ha in parte inteso
Quel che chiedea la donna e le aggradiva:
Sa ch’ella già lo amava; onde compreso
Ha che di nôvo in lei amor si avviva:
Ma pur di quel che ha letto assai si ammira,
E di nôvo la lettra or legge, or mira.
 
20- E alla proposta subito rispose,
E rescrisse una a lei di tal tenore:
—Regina mia, nelle importanti cose
Vostre del regno sol vi mostro amore;
Ma in altre trame occulte ed amorose
Non fui mai vosco: onde pigliate errore;
Nè sta notte nè mai giacqui con vui:
Credo ch’in cambio mio godeste altrui.—
 
21- Diede la lettra il conte al fido messo,
Che alla regina appresentòlla in mano.
Ella vedendo il servo, al primo ingresso
Allegròssi, ma poi fu il gaudio vano;
Chè, poi che della lettra intese espresso
Tutto il tenor, le parve il caso strano
D’esser schernita, e che ciò nieghi il conte,
Chè pure il vide seco a fronte a fronte.
 
22- E cominciò a dolersi la regina
Allor del conte assai, con voce pia;
Lacrimando diceva:—Ahimè meschina,
A chi diei l’alma e la persona mia!
Ad un che fu la notte, e la mattina
Dimostra ingrato che più mio non sia;
E a me, che io il vidi e so che fu certo ello,
Non si vergogna dir che non fu quello.
 
23- Nol vedeste, occhi, voi che le fattezze
Avea del conte? Io so che non errasti.
Ora son queste, Orlando, le prodezze
Che per mio amore usar prima pensasti?
Se pur non ti piacean le mie bellezze
(Che poco sono), a che, crudel, le usasti?
A che sì piccol tempo le godesti,
E da me, ingrato, come vil, ti arresti?
 
24- Forse ch’io non ti son piaciuta quanto
Credevi prima, ahimè, solo a vedermi?
Ma perchè, ingrato, tante volte e tanto
Quella notte tornasti a rigodermi?
Se allor bella non fui, come di manto
Adorna poteva altri e tu tenermi,
E se a me più tornar pur non volevi,
Negarmi esser lì stato non dovevi.—
 
25-Dall’altro canto, il conte Orlando stava
Sospeso assai, nè sa quel che si dire:
La cosa ben come era immaginava,
Ma non la sa per lo ben colorire;
Ch’essa l’avesse in fal’ preso pensava
Per cieca volontà, per gran desire;
Nè sa chi possa avere audacia presa
Di essere entrato in una tanta impresa.
 
26- Non sa com’essa lui in fal’ pigliasse,
Nol conoscendo al viso e al proprio aspetto;
Nè sa ch’in faccia lui rapresentasse,
Salvo Milone, a lei figlio diletto,
Qual non si crede che alla madre usasse
Tanta scelerità, tanto difetto:
E stette in tal pensier tutto quel giorno.
Ma il conte io lasso, e a Malagigi io torno.
 
27- Credendo Malagigi ritornare
Alla regina la notte seguente,
Nel mezzo di quel dolce lamentare,
Che faceva ella del suo error dolente,
Andòlla Malagigi a visitare,
Che non sapea della regina niente
Quel che dolesse; anzi a lei venne allora
Con la sembianza di quel conte ancora.
 
28-Fu dalla più secreta cameriera
Portata alla regina la novella,
Come ad essa il gran conte venuto era
Per visitarla, se piacesse ad ella.
Tutta turbòssi la regina in ciera,
E in mille parti il sdegno la martella;
E dubita di dui qual debbia fare,
O se lo escluda, o pur lo lassi entrare.
 
29- Non sa quel che si far, tutta è commossa,
Non sa se contradica o se consenta;
Ma l’amor più che l’ira ebbe gran possa,
Sì che a lassarlo entrar restòe contenta.
La cameriera ad introdurlo mossa,
Avanti alla regina lo appresenta;
E Malagigì, non sapendo il fatto,
A lei si appresentò con allegro atto.
 
30- Ma ella con sembiante assai mansueto,
Con occhi mesti a guisa di turbata,
Non ben rispose a Malagigi lieto
Come pensò vedere alla tornata:
Ma non per questo si ritrasse a drieto,
Ma dimostra egli faccia allegra e grata;
E accarezzar la donna allor non resta,
Pensando che per altro ella stia mesta.
 
31- Ma senza altro parlarli, la regina
La lettera del conte al baron diede:
Presela quello, e súbito divina
D’ove il gran sdegno di colei procede;
E più cognosce ancor la sua ruina,
Chè la lettra del conte in scritti vede:
La lettra lesse, e poi, rivolto a lei,
Disse:—Regina, per un scherzo il fei.—
 
32- Tutta mutòssi la regina allora,
E serenò la fronte e il suo bel ciglio;
E più che mai Orlando la innamora,
E subito le fa mutar consiglio.
Ma quietata non bene era ella ancora,
Quando a lei corse un suo fedel famiglio,
E díssele:—Regina, il tuo figliuolo
Si trova in gran contrasto e in maggior duolo.
 
33- Il conte Orlando nostro defensore,
Venuto da ponente ove il sol monta
Per defendere il stato e il vostro onore,
Credo che ricevuta abbia qualche onta;
E dir l’ho udito al tuo figliuol:—Signore,
S’esta persona mai per te fu pronta,
Se mai io satisfeci al tuo desire,
Piacemi assai, ma ormai mi vô partire.—
 
34- Di questo assai si duole il tuo Milone,
E li repugna e consentir non vuole;
E vie più perchè Orlando la cagione
Tace, nè si contenta e non si duole;
Ma che offeso sia stato il gran barone,
Conóscesi alla ciera e alle parole:
Però prega Milon ch’ivi tu vegni,
E che lui, se il puoi far, fra noi ritegni.—
 
35—Poco cervel coprir dê la tua fronte,
E che l’hai dove la civetta il gozzo:
Or non è qui a me presente il conte?
Che ti sian cavi li occhi e il capo mozzo!—
Rispose la regina—; e a me racconte
Una tal falsità, ribaldo e sozzo?
Sei cieco, ovver bevuto hai troppo vino,
Che qui non vedi Orlando paladino?—
 
36- Guarda il famiglio, e resta stupefatto,
E cognosce che quello è Orlando apponto:
—Io non so, disse, come vada il fatto,
E come pria di me costui sia gionto:
Io il vidi, io lo udii pur, e corsi ratto,
Regina, a te, chè sai quanto sia pronto;
E non so come sia possibil questo,
Che egli di me sia giunto a te più presto.
 
37- E partito porrò con chi lo accetta,
Che quel ch’io vidi, Orlando, è in sala ancora,
E parla con Milon; chè così in fretta
Venni, che certo ancor con lui dimora.—
Perchè a chi il fatto attien sempre sospetta,
Molto turbòssi la regina allora:
A Malagigi guarda, e si dispone
Veder di tal novella il paragone.
 
38- Malagigi, che più non può coprirse,
Dispose allor finir la cosa in riso;
E vôlto al servo, disse che forbirse
Debbasi ben di nuovo e li occhi e il viso;
E che debbia correndo indi partirse,
E ben cerchi mirare attento e fiso
Se più dove diceva il conte vede,
E poi ritorni e facciane lor fede.
 
39- Súbito il servo, senza altra risposta,
Ritornò in sala, ove ancor stava il conte;
A cui il servo assai vicin si accosta,
E fra sè dice:—Io pur ti miro in fronte;
Pur veggio quel che sei: ora a sua posta
Mi accusi la regina e facciami onte;
Ch’io dubito assai ch’essa e il suo figliuolo
Non sian traditi, e non ricevan duolo.—
 
40- E nulla dire allora a Milon volle,
E fra sè parla, e torna alla regina,
Ed a lei disse:—Chi ’l cervel mi tolle,
Peggio che non veggio io quello indivina.
Tu sei troppo, regina, a creder molle,
E ne potría riuscir tua gran rovina:
Orlando è in sala; e questo è certo assai,
E a vederlo tu ancor venir potrai.—
 
41- Rispose la regina:—Io vô vedello;
Ch’io voglio, s’io nol trovo, castigarti:
E tu, conte, se tu però sei quello,
Prego che qui mi aspetti e non ti parti.—
Rispose Malagigi:—Io son pur ello;
E per meglio voler certificarti,
Qui dentro chiuso vóglioti aspettare:
Fa pur quanti usci vuoi di fuor serrare.—
 
42- Fu chiuso Malagigi, e Galliciana
Andò dove è Milone, e il conte in sala;
E visto il conte, assai li parve strana
Tal cosa, e come a uccel le cascò l’ala.
Chiama in amore ogni sua opra vana;
L’ira in lei cresce, e il desiderio cala;
Volsesi disperar, volse morire,
Poi che così si vide allor schernire.
 
43- Ma, come sempre, saggia e discreta,
Farne vendetta al tutto si dispose,
Ma per suo onore più che può secreta.
Ordine buono al suo disegno pose:
Molti de’ suoi armò, chè non gliel vieta
Alcun, chè potea queste e maggior cose;
E condusseli ove era il finto Orlando,
Per legarlo prigione al suo comando.
 
44- Ma intanto Malagigi la mala arte,
Buona per lui, aveva oprato solo:
Chè solo a un comandare e aprir di carte
Passava i muri e se ne andava a volo;
Effigie muta, e quando vuol si parte,
E il gaudio in pene muta, in gaudio il duolo.
Egli uscì fuora, e in cambio suo rinchiuso
Un spirto lassò da lui bene uso.
 
45- Nè vi ammirate se tal cosa fa,
Chè questo a lui ch’è mastro, è cosa picola:
Un libro consecrato il barone ha,
Che tutti i segni di tale arte articola:
In quello ogni scongiura e forza sta
Che descrive Azael e la Clavicola;
E però dal demonio egli è obedito
Secondo le occorrenzie e l’appetito.
 
46- Partìssi allora egli per più destra
Che puote, chè sapea quel che importava:
Non so se uscisse per uscio o finestra;
O se demonio o spirito il portava.
Da l’altra parte la regina allestra
Li armati suoi, e nella ciambra entrava;
E addosso a Libichel, ch’in propria forma
Del conte stava, corse quella torma.
 
47- Tutti con gran furor contra a lui fêrse,
Per far della regina ogni comando,
Che tutta l’ira contra a quel converse
Che era in la ciambra, come a finto Orlando:
Ma Malagigi l’animo non perse;
Anzi rispose bene al lor dimando:
Chè a chi per dargli o lo pigliar s’accosta,
Con pugni e calci fa buona risposta.
 
48- Gridava ognun:—Pigliamo sto mal guerzo—
(Chè così è il spirto in forma del gran conte):
Ma Malagigi lor fa stranio scherzo,
E a chi una gota rompe e a chi la fronte;
Dui fece tramortire, e occise il terzo,
E contra li altri ha ancor sue forze pronte;
E ad un di lor, che gli contrasta invano,
Tolse per forza un gran baston di mano.
 
49- Questo vedendo li altri, e che ben li unge,
Ciascun sta largo, e il guardano alle mani.
—Dàlli dàlli,—ciascun grida da lunge,
Come quando talor son tocchi i cani,
Che abbajan36 pure, e alcun non morde o punge,
E vanno intorno oppur stanno lontani:
Così fan quelli, e gridano sì forte
Che udito già l’avea tutta la corte.
 
50-Milon vi corse, il conte e il gran Fondrano,
Rosadoro, Arideo, con altri insieme:
Ciascun teneva o brando o spiedo in mano,
Chè chi il caso non sa, di peggio teme.
Allora Libichel si fa più strano;
Il baston gira, e di gran furia freme
Per provocar più il conte e li altri in ira;
Corre al nemico, grida, salta e gira.
 
51- Intanto coi compagni il conte giunse,
E il tempo prese allora Libichello;
Per non mostrarsi Orlando a Orlando, assunse
Novella forma, come giunse quello;
Effigie da baston proprio si aggiunse,
E divenne di un uomo un asinello.
Io non so se Turpino in ciò m’inganni,
Fu uno asinello di ben sopra otto anni.
 
52- Rignando, cominciò giôcar di calci,
E porre ivi ciascuno in gran conquasso;
Fra color si dimena, e con gran balci
E correr, ne va assai più che di passo.
Non fa tempesta, quando scorza i salci,
Tanto rumor ne’ campi e tal fracasso,
Quanto fa allora il spirto Libichello
Mutato, come io dissi, in asinello.
 
53- Orlando e Rosador di riso scoppia,
Milon, Fondrano, e così tutto il resto:
Pur sempre i calci l’asinel raddoppia,
E salta e corre e poi raggira presto;
L’orecchie stende, si digrigna, e doppia
Festa agli astanti poi aggiunse a questo,
E in ordine mostrò quel che in le stalle,
O ne’ campi, il stallon fra le cavalle.
 
54- E si drizzò a seguir Gallicïana
Quel disonesto e intrepido asinazzo:
Ella, che vide quella cosa strana,
Si sforza vergognosa uscir d’impazzo;
Ma l’asino da lei non si allontana:
Gridagli forte ognun, pur n’ha sollazzo;
E se non pur che la regina infesta,
Scoppiato ne sarebbe ognun di festa.
 
55- Ma il conte Orlando, cavalier saputo,
Che ebbe la lettra, s’avvisò del fatto:
Perchè più d’uno incanto avea veduto
Per altri tempi, imaginòssi il tratto,
Che Malagigi, o chi altri, qui venuto
Fusse per eseguir questo tristo atto;
Ed a quanti baron si vide avante,
Disse:—Qui è stato qualche negromante.—
 
56- Confermò ognun quel che ’l conte prevede;
Il qual disse a ciascun che presente era:
—Io son Orlando, il quale in Cristo crede,
E la sua legge è sola al mondo vera.
Mostrar vi voglio la cristiana fede
Quanto potente sia, quanto sincera;—
E l’asino gridò:—Demonio tristo,
Pártiti quindi per virtù di Cristo.—
 
              (Manca la continuazione.)
 
57- Ebbe il gigante allora acerba pena;
Pur si ritenne in piede, e il capo quassa;
La mazza stringe et a due man la mena,
E contra a chi il percosse un colpo lassa:
Schifarlo puote il Paladino appena,
Ma pur da parte salta, e il colpo passa:
Egli è mastro di guerra, e il suo Rondello
Ai salti è assüefatto e molto snello.
 
58- Schifò quel colpo, e ben volse il marchese
Ma renderlo non puote a quella volta,
Chè separate fur le lor contese;
Tanto crescea de’ cavalier la folta:
Sicchè Oliviero allora altra via prese,
Mostrando tra’ Pagani audacia molta:
Quanti ne giunge, pien di rabbia e tôsco,
Male integri li manda al regno fosco.
 
59- Riconfortòssi la cristiana schiera
Pel grande ajuto di quel Paladino.
Ma di Ruffardo la possanza fiera
Fa come falce di stipa o di lino:
Infernal cosa è riguardarlo in ciera,
Nè sì brutto si pinge Calcabrino;
E tanto adopra la ferrata mazza,
Che sempre ha intorno spazïosa piazza.
 
60- Ma Balugante, cupido di sangue,
Bravante il maladetto a ferir manda.
Mossesi quello a guisa di fiero angue,
Se avvien che ’l tôsco disdegnato spanda:
Restò a tal giunta ogni cristiano esangue,
E a fuggir cominciâr per ogni banda:
Li più gagliardi allor ebber paura,
Movendosi il pagan d’empia statura.
 
61- Il primo che scontrò con la fiera asta,
Fu Rodoardo sir di Lamporeggio:
Gagliardo fu, ma al colpo non contrasta,
Chè a terra cade, e non gli avvenne peggio.
Poi che la lanza in mille pezzi è guasta,
Il brando tira, e grida:—Oggi preveggio
Il modo di sbramarmi a sangue e morte,
E provar quanto ogni cristiano è forte.—
 
62- Vide il Danese il danno de’ Cristiani,
E il suo Dudone e Bradamante appella,
Che era in la schiera delli due germani.
Costei del buon Rinaldo era sorella,
Gagliarda, ardita ed a menar le mani
Atta non men che un Paladino, e bella:
Altra Camilla, altra Pentesilea,
Che armata sol per Cristo combattea.
 
63- Entrò la dama nel calcato stormo
Insieme con Dudon, gridando forte:
—Ora, canaglia, insieme vi distormo,
Chè tutti meritate acerba morte:
Io più di voi46 non son legata o dormo,
Che sì pensate, penso, a trista sorte;—
E con la lanza un cavalier percusse
Chiamato Armeno, e credo Armeno fusse.
 
64- Poi trasse il brando la gagliarda dama,
E gettò morto un giovinetto al piano,
Qual da Turpino Chiarïol si chiama,
D’abito e nascimento sorïano,
Venuto di Soría per la gran fama
Del gran re Carlo e del popol cristiano;
E lassò il padre suo senza altro erede,
Giurando tornar presto alla sua fede.
 
65- Glorio, Lampruccio e Meleardo uccise,
Tutti Africani e tutti e tre di Egitto:
Col brando il capo ai dui primi divise,
L’altro di punta fu nel cuor trafitto.
Per questo, gran terror la dama mise
Nel popul saracin timido e afflitto;
Gettando gambe, braccia e teste a terra,
Questo urta, quello uccide ed altri atterra.
 
66- Come se tra molti minuti schioppi
Bombarda scocca e sino al ciel rimbomba,
Che non pur par che de’ nemici aggroppi
L’animo, ma li offende, atterra e slomba;
O se nei campi pecorelle intoppi,
Dopo altri lampi, una fulminea romba;
A paragone d’altri men potenti
Par che a ferir la dama si appresenti.
 
67- Ma Dudon fa con lei la festa doppia,
E col brando fracassa, atterra ed urta,
Minaccia, fende, rompe, taglia e stroppia,
E a questo il busto, a quello un braccio scurta;
L’uno induce timor, l’altro il raddoppia,
Per tener de’ Cristian l’audacia surta:
Ma non men Saracin da l’altro canto
Cercano di vittoria avere il vanto.
 
68- Artiro, Odrido, Buffardo e Bravante
Son contra i nostri da gran furia spenti:
Come si vede a caso in uno instante
Levarsi a un tempo dui contrarî venti,
Che l’un sbatte a ponente, altro a levante,
Quel che a lor forza a caso si appresenti;
E con tal furia l’un l’altro ritrova,
Come volesser discacciarsi a prova.
 
69- Scontròsse con Odrido Bradamante,
E stordito il lassò, tanto il percosse;
Ferìllo al capo la donzella aitante,
Che tutto il tramutò, tutto il commosse.
Visto quel colpo il forte re Bravante,
Stimò che un Paladin la dama fosse,
E d’un gran colpo l’elmo le martella,
Di che gran pena51 ne sostenne quella.
 
70- Ma súbito grande ira al cuor le monta,
E con il brando il capo gli percuote,
Chè ’l colpo dato a lei con questo sconta,
E impallidir gli fece ambe le gote;
Ma il re Bravante le lassò una ponta,
Che appena ella in arcion tener si puote:
Ma, per la gente ch’ivi allor si mosse,
Per forza l’un da l’altro separòsse.
 
71- Ma con Buffardo si scontrò Dudone,
E con gran stizza addosso se gli cazza;
D’una mazzata il giunse in un gallone,
E poco men ch’in terra nol tramazza;
Chè grande anch’esso e forte era il barone,
Perito molto in adoprar la mazza.
Ora centra a Dudon venne il pagano,
E l’uno e l’altro con la mazza in mano.
 
72- Mena il gigante con la sua ben ferma
Mazza a Dudone; egli da parte salta,
E convien che con senno e ben si scherma,
Chè troppo acerbo il saracin lo assalta:
Ma Dudon nel costato allor gli afferma
La mazza, nè levòlla allor troppo alta;
E di dolor, tanto la mazza il tocca,
Gettò il pagan la lingua fuor di bocca.
 
73- Ma súbito il gigante in sè rivenne,
E nell’elmo a Dudon gran colpo tira:
Quasi cade il baron, pur si ritenne;
Ma monta per vergogna e doglia in ira
Tanto, che addosso a quel gigante venne,
E alla visiera, dove il fiato spira,
Toccòllo, e il naso talmente gli offese,
Che Buffardo per doglia a terra stese.
 
74- Occiderlo volea Dudone allotta,
E per ferirlo avea già il braccio in ponto;
Ma proibìllo far di nuovo lotta
Il stormo de’ Pagan ch’ivi fu gionto:
Fugli il disegno e la sua impresa rotta,
Chè ognun fa più di sè che d’altrui conto:
Vide essere egli danno e incarco espresso,
Per occidere altrui, morire anch’esso.
 
75- Onde, indi allor convenne dipartirse,
E lassare il gigante in terra steso;
Chè gente tanta contra lui venirse
Vedea, che forse allor restava preso;
E li fu forza altrove ancor partirse,
Chè alla forza ciascun misura il peso:
Ferendo va i nemici in altra parte,
Ed a chi il petto, a chi la faccia parte.
 
76- Così fa la donzella Bradamante,
Col brando in man gagliarda a maraviglia.
Intanto sorse il caduto gigante;
Qual nuovamente la sua lancia piglia,
E questo dietro e quel percuote avante:
A infernal mostro nel ferir simíglia;
E tanto di ferir l’empio procaccia,
Che chi percuote occide, e li altri caccia.
 
77- Mirava la battaglia allor Rinaldo,
Il quale fra’ Pagan stava secreta–
mente; ma di scoprirse e d’ira caldo,
E di assalirli con il re di Creta
Non si può raffrenar, non può star saldo,
Non può tener la mente a un segno quieta;
E una sola ora mille anni gli pare
Potere esso in persona in giôco entrare.
 
78- Bradamante ferir vedea il barone;
Conobbela all’insegna e all’armatura,
Chè in campo verde portava un leone
Di quel proprio color ch’ha di natura:
L’insegna è questa del suo padre Amone;
Piacque alla dama simil portatura:
Fu il leon poi alquanto tramutato,
E di integro Rinaldo il fe sbarrato.
 
79- Tanto col re Cretense oprato avea
Rinaldo, che a re Carlo è fatto amico,
E battezzarsi in tutto si volea,
Chè di Califa fatto era nemico;
E la cagion che a questo lo movea,
Ditta l’ho sopra e più non la ridico;
E in punto stan quando fia tempo e loco
Di accender fra’ Pagani un doppio fôco.
 
80- E per tessere alfin quel che avea ordito,
E mandare ad effetto il suo disegno,
Alla sorella prese per partito
Far di sua mente con buon modo segno;
E presto entrò con l’asta bassa ardito
Fra’ Cristïan, come li avesse a sdegno;
E percosse uno appresso alla sorella,
Che in terra il fe cadere e turbar quella.
 
81- La dama, allor, con rabbïoso schismo,
Verso Ranaldo si avventò col brando,
Per mandar quello, come lo esorcismo
I spiriti infernal, di fuga in bando.
Del duol già ne sentì gran parossismo,
Ma non volse il baron far di rimando,
E beffarla e fuggir cominciò insieme,
Come un pazzo che scherza a un tratto e teme.
 
82- Dicea Rinaldo:—Sei tu de’ baroni
Che si chiamano in Francia paladini,
Che non potete fuora delli arcioni
Gettar li men stimati Saracini?
Se non aveste le armi e i brandi buoni,
Persi aría Carlo ormai e’ suoi confini:
E tu porti il leon, superba insegna,
Per dimostrar ch’in te gran forza regna.—
 
83- Per tal parole, e per la prima causa
Dell’occiso baron vicino a lei,
Seguía Rinaldo senza alcuna pausa,
Per condurlo col brando a casi rei;
E per grande ira allor saría stata ausa
Entrar nel fuoco, o dove stanno i Dei
Volar al ciel, o profondarsi in mare,
Per volersi del caso vendicare.
 
84- Fuggía Rinaldo, ed ella seguitava
Tanto, che fuora delle schiere usciro.
Allor Rinaldo a quella si voltava,
Dicendole:—Sorella, assai mi ammiro
Che tanto il tuo fratello ora ti aggrava,
Che dar gli cerchi l’ultimo martiro:
Se ben son travestito e non sto saldo,
Io però sono il tuo fratel Rinaldo.—
 
85- E verso lei alzata la visiera,
Fecela chiara di quel ch’era incerta.
Visto alla faccia che quello appunto era
Rinaldo, e che ne fu la dama certa,
Depone ogni furor, giubila, e spera
Che presto sua possanza sia scoperta;
E in ben di Carlo e danno de’ Pagani,
La vittoria per lui fia de’ Cristiani.
 
86- Dopo molte parol’ tra lei e lui,
Rinaldo le contò l’ordine dato
Col re d’Oranio e i capitanei sui,
Sì come per addietro hovvi narrato;
Onde soggiunse:—A te prima che altrui
Il mio pensier secreto ho revelato,
Acciò che vadi al capitan Dainese,
E quel ch’io a te, tu a lui facci palese.
 
87- Digli che in punto con due squadre stia,
Con qualche che a lui piaccia baron franco;
E che quando levato il rumor sia
Nel campo de’ Pagan, venga per fianco,
Chè di venir li avrà secura via;
Nè può venirne tal disegno a manco.
Egli da lato, e noi da la codazza,
Porremo a morte gl’inimici e in cazza.
 
88- E senza spia che gli riporti quando
Comparir deva, digli che pur presto;
Chè il cominciar tal cosa è a mio comando,
E che il troppo tardar mi è già molesto.
Comincierò adoprar súbito il brando
Ch’io pensi che ciò a lui sia manifesto.
Vanne, sorella, e digli che non erri,
Ch’oggi vittoria aranno i nostri ferri.—
 
89- Inteso ch’ebbe Bradamante il tutto,
Verso Parigi punse il suo destriero;
E come ben Rinaldo avea condutto
Il suo disegno, disse al franco Ugiero:
A cui, poi che l’udì, non parve brutto
Del buon Rinaldo l’ordine e il pensiero;
Anzi, per darli con prestezza effetti,
Ebbe dui capi con lor squadre eletti.
 
90- L’uno fu Namo, e l’altro Ricciardetto;
La sesta schiera ha quel, questo la nona:
Et ad ambi narrò tutto l’effetto,
Perch’esso andar non vi volse in persona;
Chè un capitanio generale eletto,
Raro non mai l’esercito abbandona:
E però a quelli revelò il secreto;
Di che ciascun di lor funne assai lieto.
 
91- Così per via dove non fusser visti,
Con le lor schier’ li capi se avvioro
Per ritrovare i Saracin sprovvisti,
E contro essi adoprar le spade loro.
Spera ciascun di far solenni acquisti,
Poi che del tutto bene instrutti fôro.
Ma vadan quelli; io tornerò al Danese,
Che ove è Carlo rimase, e ad altro attese.
 
92- Per impedir che quei ch’erano in fatti,
Tenessero ivi il lor combatter saldo,
Nè addietro fusser dal rumor retratti,
Quando l’assalto arà fatto Rinaldo;
Con strattagemme e ingenïosi tratti
(Di che esser debbe sempre un capo caldo),
Gano mandò con la settima schiera
Dove la prima pugna in gran colmo era.
 
93- Con trenta milia di sue genti pronte,
E con molti de’ suoi conti malvagi,
Entrò in battaglia il Magazense conte,
E seco avea Beltramo e Bertolagi,
Falcon, Sanguino, Spinardo e Lifonte,
Anselmo, Pinabello ed Aldrovagi,
Con altri molti che ridir non stimo;
Ma Gano fu con l’asta al ferir primo.
 
94- Ruppe la lanza proprio a mezzo il scudo
Di Medonte di Dacia cavaliero,
Che li cacciò fuor della schiena il nudo
Ferro dell’asta, sì fu il colpo fiero;
Poi trasse il brando, e, nequitoso e crudo,
Il capo fésse a Corifonte arciero.
Di Dacia fu costui, a Odrido caro;
Ma non gli fu a quel colpo allor riparo.
 
95- Ma Balugante, dello assalto accorto,
Mandò nella battaglia Ardubalasso:
Qual percosse Dudone, e come morto
In terra lo gittò con gran fracasso;
E pria die fusse quel baron risorto,
Fu preso, ancor pel colpo afflitto e lasso;
Nè potè esser soccorso allor Dudone,
Che a Balugante fu dato pregione.
 
96- Per il nuovo soccorso e la gran forza
Di Ardubalasso, li Cristian fuggiro;
E la furia schifar ciascun si sforza,
E li più forti allora si smarriro:
L’ardir di molti quello assalto ammorza,
E qual Bufardo fugge e quale Artiro,
Chi Odrido schifa e chi Bravante fugge;
Dove salvarsi spera, ognun rifugge.
 
97- Grida Olivier con voce minacciante,
E Grida Gano:—Ove fuggite voi?
Séguitene, Cristiani, andiamo avante:
Volete abbandonar re Carlo e noi?
Re Carlo anch’esso pure ha genti tante,
Che a tempo manderà soccorso ai suoi:
Non dubitate; ognun torni a ferire,
Chè la gloria di un forte è un bel morire.—
 
98- Ardubalasso, intanto, ed Oliviero
Con furia estrema si affrontaro insieme.
Ferì questo il pagan sopra il cimiero
Con furia tanta e con tal forze estreme,
Che poco men che noi cacciò al sentiero;
Ma pur di doglia esterminata il preme:
E se non era allor l’elmo sì forte,
Condutto era Olivier pel colpo a morte.
 
99- Ma buona pezza stette strangosciato
Per quel gran colpo il paladin marchese;
E pregione era, se non era aitato
Da Ganelon, che a forza lo difese.
Prese una lanza, e nel sinistro lato
Percosse Ardubalasso e a terra il stese;
Chè contra lui sì inopinato venne,
Che ’l Saracino in sella non si tenne.
 
100- Risorse, intanto, il gran signor di Vienna,
E forte combattea col brando in mano:
Così fa Gan, che tocca e non accenna,
E questo occide e quel riversa al piano.
Ma non val lor con brando e con antenna
Ferir, chè sol sono Oliviero e Gano
Or capi tra’ Cristiani in tal tenzone:
Preso è Dudone, Astolfo e Salomone.
 
101- E Bradamante col suo Ricciardetto
Si pose in schiera, come fu ordinato,
Per far col sir di Montalban l’effetto,
Che di sopra poco anzi io vi ho narrato.
Però il Danese, che avea tal respetto,
Vuol che sia ajuto ai combattenti dato;
E in battaglia Turpin presto mandava
Con la sua schiera, di ordine la ottava.
 
102- E subito parlò del fatto ordito
Contr’a’ Pagani al sacro imperatore;
Ed ordinòsse, allor che Carlo uscito
Con la sua schiera di ordinanza fuore,
L’inimico da un canto abbia assalito,
Sentendo in quella parte il gran rumore,
E inteso di Rinaldo il duro assalto,
In quella parte allor debbia far alto.
 
103- Turpino, intanto, tanti fatti fece,
Ch’io non ricordo, e con brando e con lanza,
Che parve un fuoco entrato nella pece,
Che Dio li accrebbe il lustro e la possanza.
Tutte le schiere de’ Cristian rifece,
Tal che ciascun di lor prese speranza;
E in questo assalto de’ forti Cristiani
Gran danno e occisïon fu fra’ Pagani.
 
104- Ma Balugante manda Marcaluro
A soccorrer Pagan già posti in fuga;
Qual, nequitoso e di superbia duro,
Dov’entra, li Cristiani atterra e fuga.
Ma Rinaldo che vede il caso oscuro
Delli occisi Cristiani, il fronte ruga;59
E tratto il brando, se n’andò dov’era
Non distante Califa e la sua schiera.
 
105- Ranaldo avendo l’abito pagano,
A Califa accostòssi con buon modo,
E dièlli sopre il capo un colpo strano,
A guisa che si caccia in legno il chiodo:
Trovòl soprovvisto, e riversòllo al piano,
Benchè fusse quel re gagliardo e sodo;
Nè allora ebbe altro mal: ma il buon Rinaldo
Mostròssi allora di gran furia caldo.
 
106- E con il brando mena gran tempesta,
E facea colpi fuor d’ogni misura:
A chi braccia tagliava, a chi la testa,
E chi fendeva insino alla cintura;
E tanto l’occhio aveva e la man presta,
Che facea a un tempo il danno e la paura;
Sempre gridando:—Addosso alla canaglia,
Chè vincitor sarem60 della battaglia.
 
107- Vedendo questo i Saracin smarriti,
Che non san ciò che questo dir si voglia,
E vedendo li morti e li feriti
Da sì gran colpi, tremano qual foglia;
E se vi erano alcun’ delli più arditi
Che di offender Rinaldo avesser voglia,
Egli col brando sì li acconcia e sbatte,
Che tutti o occide, o con gran furia abbatte.
 
108- Intanto Bradamante si scoperse
Con li fratelli e la sua ardita schiera,
E le cristiane insegne al vento aperse,
E entrò per fianco dove Rinaldo era.
Questo61 quel stormo allor tutto disperse,
Vedendosi assalito a tal maniera:
Restò all’assalto ognun da sè diviso,
Chè assai spaventa uno émpito improvviso.
 
109- In altra parte, poco a quei distante,
Mossesi Namo e tutta la sua gente,
E ove è Tricardo allor si trasse avante
Con la schiera serrata arditamente.
Non vi fu saracin tanto constante
A cui non vacillasse allor la mente,
Vedendosi così disordinare;
Nè più si sanno in qual parte guardare.
 
110- Mosso non si è Doranio ancora contra
A’ Saracin, ma tempo e loco appetta;
Che se peggio a’ Cristiani non incontra,
Senza scoprirse spera la vendetta.
Vede che quanti il buon Rinaldo scontra,
Tutti col brando li investisce63 e affetta;
Onde in lui spera, e ancor riposa alquanto:
Però, posando anch’io, fo fine al canto.
Altre opere di Ludovico Ariosto...



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