Or che la terra di bei fiori è piena,
E che gli augelli van cantando a volo,
Il mar s’acquêta e l’aria s’asserena;
Io, miser! piango in questi boschi solo,
E notte e giorno e dal mattino a sera,
E la mia vita pasco sol di duolo.
Per me non è nè mai fu primavera,
Ma nebbia, pioggia, pianto, ira e dolore,
Dopo ch’io ’ntrai nell’amorosa schiera.
Non so se palesar ancor l’ardore
Debba, o tenerlo pur nel petto ascoso,
Per non far crescer sdegno al mio signore:
Ma già drento e di fuor ha tanto roso
La fiamma, che tutt’ardo, e più non posso
Trovar al mio languir pace o riposo.
Più non ho sangue in vena, e meno in osso
Midolla2 alcuna, nè color in volto:
Tanto fortuna e ’l ciel m’hanno percosso!
Però col mio parlar a voi mi vôlto,
Fiori, erbe, fronde, selve, boschi e sassi,
Poich’ogni altro auditor Amor m’ha tolto.
Voi testimoni sête quanti passi
Errando feci in queste vostre rive
Coi piedi stanchi, tormentati e lassi.
Fiumi, torrenti, e voi fontane vive,
Sapete le mie pene, stenti e guai,
E quant’umor dagli occhi miei derive.
E tu, soave vento, che ne vai
Per queste fronde, sai quanti sospiri
E quanti gridi verso il ciel mandai.
Fera non è che quivi intorno giri,
Che non sappia ’l mio stato e l’esser mio,
L’angustie, le fatiche e gli martirî.
O cieli, o fato, o destin aspro e rio
Sotto cui nacqui! o dispietata stella,
Com’ognor sei contraria al mio desio!
O fortuna perversa, iniqua e fella!
O Amor crudel e d’ogni mal radice,
Ben stolto è chi dà orecchie a tua favella!
Tu dimostrasti farmi il più felice
Che mai si ritrovasse tra gli amanti,
Per farmi poi ’n un punto il più infelice.
Non son nel regno tuo perle o diamanti
Che non sian pieni di pungenti spine,
Date per premio di sospiri e pianti.
Qual lingua potría dir mai le ruine
Che per te già son state, e quante gente
Per tua cagion son giunte a miser fine?
Per te si ritrovò Troja dolente;
Per te cangiòssi Dafne in verde alloro,
De la cui doglia ancor Febo ne sente;
Per te Piramo e Tisbe sotto ’l moro
Con le sue proprie man si dier la morte;
Per te Pasife si congiunse al toro;
Per te Dido costante, ardita e forte
Passòssi ’l petto nel partir di Enea;
Per te Leandro giunse a trista sorte;
Per te la cruda e rigida Medea
Occise il suo fratel, ed altri mille
Per te sentirno pena acerba e rea.
Non escon d’Etna fuor tante faville,
Quanti son morti per tuo mal governo,
Nè dà tant’erbe aprile a prati e ville.
Il tuo non è già regno, ma uno inferno,
Ove sempre si piange e si sospira,
Ove si vive con affanno eterno.
Non ti maravigliar se son pien d’ira,
S’io mi lamento, signor impio e crudo,
Ch’a dirti ’l ver ragion mi sforza e tira.
Tu mi legasti a un arbor verde e nudo,
Ch’in sè non avea ancor vigor nè possa;
Al qual fui per difesa sempre scudo,
A ciò non fosse sua radice mossa
Per freddo o caldo,4 per tempesta o vento,
O da folgor del ciel fiaccata scossa.
Sempre vi stava con ogni arte intento,
Con ogni ingegno e forza lo nutriva,
E del suo frutto mi tenea contento:
Ma poi ch’e’ crebbe5 e ’n sino al ciel fioriva,
E che del frutto avea qualche speranza,
Altri l’accolse,6 e fu mia mente priva.
Quest’ é il costume tuo, quest’è l’usanza,
Fallace Amor: però in pianto destino
Fornir il breve tempo che m’avanza,
E per il mondo andar qual peregrino,
Maledicendo te del mal ch’io porto,
Fin che morte interrompa il mio cammino.
E s’alcun mai trovasse ’l corpo morto,
Prego ciascun che ’l lassi sopra terra,
Chè, poi che ’n vita fui senza conforto.
Dopo morto con fere abbi ancor guerra.