Ludovico Ariosto

Elegie ll

Poich’io non posso con mia man toccarte,
Nè dirti a bocca il dolor che mi accôra,
Tel voglio noto far con penna e carte.
    Doglioso e mesto, pien d’affanni ogn’ora,
Meno mia vita afflitta e sconsolata
Dal dì che, mal per me, tu andasti fuora.
    Chiamo la morte, e lei non viene, ingrata!
A finir il dolor ch’io porto e sento
Per non poter saper la tua tornata.
    Tu festeggi in piacere, ed io tormento,
Privo di te, che notte e dì ti chiamo:
Però di ritornar non esser lento.
    Tu m’hai pur preso come pesce all’amo,
Misero me! ch’io son condotto1 a tanto,
Ch’altro che te non voglio, apprezzo e bramo.
    Tu vivi lieto, ed in me abbonda il pianto:
Tu altri godi, ed io te sol aspetto:
Di bianco vesti, ed io di negro ho il manto.
    Leva tal passïon del miser petto:
Non aspettar sentir mia crudel morte;
Chè crudeltade il ciel tiene in dispetto.
    Qualunque batte a la mìa casa o porta,
Súbito corro e dico:—Forse è il messo
Che del mio fino amor nuova mi porta.—
    La notte, in sogno, teco parlo spesso:
Questo è quel che mi consuma il côre;
Quando mi sveglio non ti trovo appresso.
    Io piango i giorni, i mesi, i punti e l’ore
Che ti partisti, e non dicesti—Vale.—
Misero, oimè, per te vivo in dolore!
    Amor crudel con suo pungente strale
M’ha fatto sì, che sole, ombra non veggio,
Rimedio alcun non trovo al mio gran male:
    E tu, crudel, sarai cagion ch’io ’l veggio.

Note
Questo amoroso lamento non pare scritto per una donna, nè a nome di una donna; e per questa cagione ancora non può giudicarsi fattura del buon Lodovico. Scorretta è certamente la chiusa, ove trovasi ripetuto, e senza dare alcun senso, il verbo veggio: ma il Barotti non a torto scriveva che queste composizioni «non meritano che s’impieghi un solo momento in emendarle.»

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