Ludovico Ariosto

Elegie Vl

Or che la terra di bei fiori è piena,
E che gli augelli van cantando a volo,
Il mar s’acquêta e l’aria s’asserena;
    Io, miser! piango in questi boschi solo,
E notte e giorno e dal mattino a sera,
E la mia vita pasco sol di duolo.
    Per me non è nè mai fu primavera,
Ma nebbia, pioggia, pianto, ira e dolore,
Dopo ch’io ’ntrai nell’amorosa schiera.
    Non so se palesar ancor l’ardore
Debba, o tenerlo pur nel petto ascoso,
Per non far crescer sdegno al mio signore:
    Ma già drento e di fuor ha tanto roso
La fiamma, che tutt’ardo, e più non posso
Trovar al mio languir pace o riposo.
    Più non ho sangue in vena, e meno in osso
Midolla2 alcuna, nè color in volto:
Tanto fortuna e ’l ciel m’hanno percosso!
    Però col mio parlar a voi mi vôlto,
Fiori, erbe, fronde, selve, boschi e sassi,
Poich’ogni altro auditor Amor m’ha tolto.
    Voi testimoni sête quanti passi
Errando feci in queste vostre rive
Coi piedi stanchi, tormentati e lassi.
    Fiumi, torrenti, e voi fontane vive,
Sapete le mie pene, stenti e guai,
E quant’umor dagli occhi miei derive.
    E tu, soave vento, che ne vai
Per queste fronde, sai quanti sospiri
E quanti gridi verso il ciel mandai.
    Fera non è che quivi intorno giri,
Che non sappia ’l mio stato e l’esser mio,
L’angustie, le fatiche e gli martirî.
    O cieli, o fato, o destin aspro e rio
Sotto cui nacqui! o dispietata stella,
Com’ognor sei contraria al mio desio!
    O fortuna perversa, iniqua e fella!
O Amor crudel e d’ogni mal radice,
Ben stolto è chi dà orecchie a tua favella!
    Tu dimostrasti farmi il più felice
Che mai si ritrovasse tra gli amanti,
Per farmi poi ’n un punto il più infelice.
    Non son nel regno tuo perle o diamanti
Che non sian pieni di pungenti spine,
Date per premio di sospiri e pianti.
    Qual lingua potría dir mai le ruine
Che per te già son state, e quante gente
Per tua cagion son giunte a miser fine?
    Per te si ritrovò Troja dolente;
Per te cangiòssi Dafne in verde alloro,
De la cui doglia ancor Febo ne sente;
    Per te Piramo e Tisbe sotto ’l moro
Con le sue proprie man si dier la morte;
Per te Pasife si congiunse al toro;
    Per te Dido costante, ardita e forte
Passòssi ’l petto nel partir di Enea;
Per te Leandro giunse a trista sorte;
    Per te la cruda e rigida Medea
Occise il suo fratel, ed altri mille
Per te sentirno pena acerba e rea.
    Non escon d’Etna fuor tante faville,
Quanti son morti per tuo mal governo,
Nè dà tant’erbe aprile a prati e ville.
    Il tuo non è già regno, ma uno inferno,
Ove sempre si piange e si sospira,
Ove si vive con affanno eterno.
    Non ti maravigliar se son pien d’ira,
S’io mi lamento, signor impio e crudo,
Ch’a dirti ’l ver ragion mi sforza e tira.
    Tu mi legasti a un arbor verde e nudo,
Ch’in sè non avea ancor vigor nè possa;
Al qual fui per difesa sempre scudo,
    A ciò non fosse sua radice mossa
Per freddo o caldo,4 per tempesta o vento,
O da folgor del ciel fiaccata scossa.
    Sempre vi stava con ogni arte intento,
Con ogni ingegno e forza lo nutriva,
E del suo frutto mi tenea contento:
    Ma poi ch’e’ crebbe5 e ’n sino al ciel fioriva,
E che del frutto avea qualche speranza,
Altri l’accolse,6 e fu mia mente priva.
    Quest’ é il costume tuo, quest’è l’usanza,
Fallace Amor: però in pianto destino
Fornir il breve tempo che m’avanza,
    E per il mondo andar qual peregrino,
Maledicendo te del mal ch’io porto,
Fin che morte interrompa il mio cammino.
    E s’alcun mai trovasse ’l corpo morto,
Prego ciascun che ’l lassi sopra terra,
Chè, poi che ’n vita fui senza conforto.
    Dopo morto con fere abbi ancor guerra.

Note
Parve al primo editore di veder qui riunite «le principali doti di questo genere di poesía, che l’Ariosto, potentissimo sempre, trattò con verità di passione, vivezza di colori e quell’aria di risolota franchezza che, singolarmente nel chiudere d’ogni capitolo, si manifesta quasi improvvisa.» Se non che nella vita, palese abbastanza, di messer Lodovico, nulla è che conduca a credere a questo amore, corrivo un po’ troppo e deluso, verso una fanciullina (volendo attenerci alla più benigna interpretazione) che da lui fosse già tutelata e protetta (ver. 70-80); e meno poi al proponimento espresso nel verso 85 e seguenti.
Il Codice: medolla. — (Veludo.)
Per genti. — (Veludo.)
Il Codice: per freddo, caldo.— (Veludo.)
Il Codice: ch’el crebbe. — (Veludo.)
Così ha il Manoscritto, come nota il sig. Veludo; che fece imprimere la colse, senza badare al necessario accordo con frutto, od anche con arbore, che di sopra è posto nel genere maschile. L’amico indicato nella nota 1 della pag. 447 ricordò opportunamente, che l’Ariosto medesimo, nell’Elegia XV, avea scritto: «Per memoria di quei frutti, Ch’or mi niega d’accôr l’altera pianta.»

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