Quando tornai barcollando
nel tuo abbraccio di mondo
avevo lo scheletro stanco
per l’archetipo viaggiare.
Mi divorava bramosa,
la fame di pini di mare.
La sete mi ardeva
di pioggia improvvisa
camminando
dalle tamerici
alle narici di casa.
Avviluppata alle mie gambe
l’immanenza di radici.
Volevo cincischiare insieme alle lumache
frinire come fanno le cicale,
frusciare come il grano al vento.
Vaticinai nei templi, mi persi,
per la letargia dei sensi,
le fiamme dei versi,
giocai tra candelabri e campanelli
ad arruffare i pappagalli
e dissacrare le pie stelle,
dai bruchi tropicali,
si librarono farfalle.
Così il tubare di un colombo
mi disse dove andare
e mi sentìì
sfiorare i petali
aprire i sepali
impallidire la corolla.
Così satolla di piacere
rotolai sul manto biondo
dello strapiombo
e caddi a tonfo
arroncigliata nel dolore.
Abbarbicata sulla roccia disadorna
rise sgomenta una civetta,
scappò di fretta il coniglio nano
e sentenziò il dio pellicano
che a casa non si torna.