Guido Gozzano

L’analfabeta

Nascere vide tutto ciò che nasce
in una casa, in cinquant’anni. Sposi
novelli, bimbi... I bimbi già corrosi
oggi dagli anni, vide nella fasce.
 
Passare vide tutto ciò che passa
in una casa, in cinquant’anni. I morti
tutti, egli solo, con le braccia forti
compose lacrimando nella cassa.
 
Tramonta il giorno, fra le stelle chiare,
placido come l’agonia del giusto.
L’ottuagenario candido e robusto
viene alla soglia, con il suo mangiare.
 
Sorride un poco, siede sulla rotta
panca di quercia; serra per sostegno
fra i ginocchi la ciotola di legno;
mangia in pace così, mentre che annotta.
 
Con la barba prolissa come un santo
arissecchito, calvo, con gli orecchi
la fronte coronati di cernecchi
il buon servo somiglia il Tempo... Tanto,
 
tanto simile al Nume pellegrino,
ch’io lo vedo recante nella destra
non la ciotola colma di minestra,
ma la falce corrusca e il polverino.
 
Biancheggia tra le glicini leggiadre
l’umile casa ove ritorno solo.
Il buon custode parla: "O figliuolo,
come somigli al padre di tuo padre!
 
Ma non amava le città lontane
egli che amò la terra e i buoni studi
della terra e la casa che tu schiudi
alla vita per poche settimane...".
 
Dolce restare! E forza è che prosegua
pel mondo nella sua torbida cura
quei che ritorna a questa casa pura
soltanto per concedersi una tregua;
 
per lungi, lungi riposare gli occhi
(di che riposi parlano le stelle!)
da tutte quelle sciocche donne belle,
da tutti quelli cari amici sciocchi...
 
Oh! il piccolo giardino ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto...
Ascolto il buon silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d’un frutto.
 
Si rispecchia nel gran Libro sublime
la mente faticata dalle pagine,
il cuore devastato dall’indagine
sente la voce delle cose prime.
 
Tramonta il giorno. Un vespero d’oblio
riconsola quest’anima bambina;
giunge un riso, laggiù dalla cucina
e il ritmo eguale dell’acciottolio.
 
In che cortile si lavora il grano?
Sul rombo cupo della trebbiatrice
s’innalza un canto giovine che dice:
anche il buon pane– senza sogni– è vano!
 
Poi tace il grano e la canzone. I greggi
dormono al chiuso. Nella sera pura
indugia il sole: “Or fammi un po’ lettura:
te beato che sai leggere! Leggi!”.
 
Me beato! Ah! Vorrei ben non sapere
leggere, o Vecchio, le parole d’altri!
Berrei, inconscio di sapori scaltri,
un puro vino dentro il mio bicchiere.
 
E la gioia del canto a me randagio
scintillerebbe come ti scintilla
nella profondità della pupilla
il buon sorriso immune dal contagio.
 
Gli leggo le notizie del giornale:
i casi della guerra non mai sazia
e l’orrore dei popoli che strazia
la gran necessità di farsi male.
 
Ripensa i giorni dell’armata Sarda,
la guerra di Crimea, egli che seppe
la tristezza ai confini delle steppe
e l’assedio nemico che s’attarda.
 
Poi cade il giorno col silenzio. Poi
rompe il silenzio immobile di tutto
il tonfo malinconico d’un frutto
che giunge rotolando sino a noi.
 
E m’inchino e raccolgo e addento il pomo...
Serenità!... L’orrore della guerra
scende in me: cittadino della Terra,
in me: concittadino d’ogni uomo.
 
Ora il vecchio mi parla d’altre rive
d’altri tempi, di sogni... E più m’alletta
di tutte, la parola non costretta
di quegli che non sa leggere e scrivere.
 
Sereno è quando parla e non disprezza
il presente pel meglio d’altri tempi:
“O figliuolo il meglio d’altri tempi
non era che la nostra giovinezza!”.
 
Anche dice talvolta, se mi mostro
taciturno: "Tu hai l’anima ingombra.
Tutto è fittizio in noi: e Luce ed Ombra:
giova molto foggiarci a modo nostro!
 
E se l’ombra s’indugia e tu rimuovine
la tristezza. Il dolore non esiste
per chi s’innalza verso l’ora triste
con la forza d’un cuore sempre giovine.
 
Fissa il dolore e armati di lungi,
ché la malinconia, la gran nemica,
si piega inerme, come fa l’ortica
che più forte l’acciuffi e men ti pungi".
 
E viene allo scrittoio, se m’indugio:
“Ah! Già i capelli ti si fan più radi,
sei pallido... Da tempo è che non badi
per queste carte al remo e all’archibugio.
 
Chi troppo studia e poi matto diventa!
Giova il saper al corpo che ti langue?
Vale ben meglio un’oncia di buon sangue
che tutta la saggezza sonnolenta".
 
Così ragiona quegli che non crede
la troppo umana favola d’un Dio,
che rinnegò la chiesa dell’oblio
per la necessità d’un’altra fede.
 
Dice: “Ritorna il fiore e la bisavola.
Tutto ritorna vita e vita in polve:
ritorneremo, poiché tutto evolve
nella vicenda d’un’eterna favola”.
 
Ma come, o Vecchio, un giorno fu distrutto
il sogno della tua mente fanciulla?
E chi ti apprese la parola nulla,
e chi ti apprese la parola tutto?
 
Certo, fissando un cielo puro, un fiume
antico, meditando nello specchio
dell’acque e delle nubi erranti, il Vecchio
lesse i misteri, come in un volume.
 
Come dal tutto si rinnovi in cellula
tutto; e la vita spenta dei cadaveri
resusciti le selve ed i papaveri
e l’ingegno dell’uomo e la libellula.
 
Come una legge senza fine domini
le cose nate per se stesse, eterne...
Tanto discerne quei che non discerne
i segni convenuti dagli uomini.
 
Ma come cadde la tua fede illesa:
fede ristoratrice d’ogni piaga
per l’anima fanciulla che s’appaga
nei simulacri della Santa Chiesa?
 
Come vedi le cose? Senza fedi,
stanco, sul limitare della morte,
sai vivere sereno, o vecchio forte,
sorridere pacato... Come vedi?
 
Guardi le stelle attingere i fastigi
dell’abetaia, contro il cielo, e l’orsa
volger le sette gemme alla sua corsa:
senti il ritmo macàbro delle strigi
 
e il frullo della nottola ed il frullo
della falena... Pel sereno illune
spazi tranquillo, vecchio saggio immune.
La tua pupilla è quella d’un fanciullo.
 
Qualche cosa tu vedi che non vedo
in quell’immensità, con gli occhi puri:
“Buona è la morte" dici e t’avventuri
serenamente al prossimo congedo.
 
Ancora sento al tuo cospetto il simbolo
d’una saggezza mistica e solenne;
quello mi tiene ancora che mi tenne
strano mistero, di quand’ero bimbo.
 
Allora che su questa soglia stessa
mi narravi di guerre e d’altri popoli,
dicevi del Mar Nero e Sebastopoli,
dei Turchi, di Lamarmora, d’Odessa.
 
E nel mio sogno s’accendean le vampe
sopra le mura. Entrava la milizia
nella città: una città fittizia
quali si vedono nelle vecchie stampe,
 
le vecchie stampe incorniciate in nero:
...i panorami di Gerusalemme,
il Gran Sultano, carico di gemme...:
artificiose, belle più del vero;
 
le vecchie stampe, care ai nostri nonni
...il minareto e tre colonne infrante,
il mare, la galea, il mercatante...
città vedute nei miei primi sonni.
 
Ed ora, o vecchio, e sazi la tua fame
sulla panca di quercia, ove m’indugio;
altro sentiero tenta al suo rifugio
il bimbo illuso dalle stampe in rame
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