Ludovico Ariosto

Canto quinto

1- Chi veder vôle un bel giardino ameno,
Che sia de’ riguardanti all’occhio grato,
D’ordini il veggia e varietadi pieno,
Che con tal varïar si fa più ornato:2
Così un poema sta, nè più nè meno,
Ch’esser dê vario in tutto ed ordinato:
Così varia il pittor col suo pennello,
E per il varïare il mondo è bello.
 
2- Però, signor, se bene io vi parlai
Poco anzi di re Carlo e di Leone,
Bene alloggiati tutti io vi lassai
Di carezze, di cibi e di mesone;
E parmi aver di lor parlato assai:
Sicchè tornare io voglio al fio d’Amone,
Qual per amore ha l’anima gioconda,
Con la sua bella e umilïata Ismonda.
 
3- Avea Ranaldo ormai sì intenerita
E scaldata d’amor la bella dama,
Che l’uno e l’altro come la sua vita
E il cuor del petto suo si apprezza ed ama.
Non è la dama più nel cuor smarrita,
Ma tacendo conferma, e l’amor brama:
Ranaldo di scaldarla mai non resta,
L’abbraccia, l’accarezza e fàlle festa.
 
4- Ma mentre stan li amanti in tal diletto,
Nè più la dama ormai fa resistenza,
E sperano d’amor l’ultimo effetto,
Nè vi è chi lor ne faccia conscïenza;
Entrar li fece in súbito suspetto
Un rumor grande, e strana appariscenza
Ch’ivi comparse, e fe sorger Ranaldo,
Che era in quel punto tutto d’amor caldo.
 
5- La dama non men presta in piede sorse,
Insieme vergognosa e tremebonda:
Súbito appresso al suo Ranaldo corse,
Come dir voglia:—Guarda la tua Ismonda;—
Ma ben presto Ranaldo le soccorse.
Ma voglier8 mi bisogna a una altra sponda,
Nè dir vi posso or questa istoria tutta,
Chè meglio gusta il bêr bocca più asciutta.
 
6- Io vi lassai sì come Bradamante
Seguito avea Ranaldo: per trovarlo
Passati ha i Pirenei, e va più avante,
Chè al tutto si è disposta a seguitarlo:
Volse il cammin pigliar verso levante,
Chè anco Ranaldo spesso solea farlo;
Poi, come spinta da furor divino,
Verso la Spagna prese il suo cammino.
 
7- E lungamente nella Spagna errando,
Or nella Catalogna, ora in Castiglia,
Pur di Ranaldo va sempre cercando,
E cerca l’Aragona e la Siviglia:
Di cercarlo non resta; e nol trovando,
Verso Valenza alfine il cammin piglia,
Più presto non sapendo ove si andasse,
Che di veder la terra desiasse.
 
8- E quasi appresso alla cittade essendo,
Vide uscir fuori una gran gente armata,
E in mezzo a quella sopra un carr’10 piangendo,
Con l’una e l’altra man drieto legata,
Era una dama, quale a fuoco orrendo
A morir crudelmente è condennata;
E sì pietosa piagne e ajuto impetra,
Che mosso aría a pietade un cuor di pietra.
 
9- Con una benda aveva la donzella
Legati li occhi, come allor si usava;
Chè, non vedendo il suo tormento quella,
Così forse il morir manco le aggrava:
Però, bench’essa fusse in viso bella,
Per quella benda allor nol dimostrava;
Ma pietosa era nel suo pianger tanto,
Che gentil si mostrava insin nel pianto.
 
10- Bradamante, che amor11 la dama vede
Fra gente tanta, et ode lamentarla,
La causa di tal cosa a un pagan chiede,
Qual le rispose che volean brugiarla;
Nè più* 9 risposta poi a quella diede.
Ma Bradamante, che ode lamentarla,
Soffrir non puote, e la visiera abbassa,
La lanza arresta e contra al capo passa.
 
11- Era capo di quelli un mascalzone,
Maggior de li altri più d’una gran spana,
Largo in le spalle e grosso di ventrone;
Tagliato ha il viso e guardatura strana;
E sin nell’ossa, a dirlo, era poltrone,
Che ha ’l corpo grande e il cuore di puttana:
Ma in tutta Spagna mai non fe natura,
Quanto era in quello, la maggior bravura.
 
12- Tutto era armato di armatura bianca,
E sopra li altri di statura avanza.
Or Bradamante, quella dama franca,
Verso di quello accosta la sua lanza,
E proprio al petto nella parte stanca
Il fer’ li pose, con tanta possanza,
Che più di un palmo lo passò di dietro,
Come di ghiaccio fusse o fragil vetro.
 
13- Poi súbito recòssi in man la spada,
E al resto di color cacciòssi addosso.
Non così secator16 atterra biada,
Quanto essa di color fa il terren rosso:
Scámpale ognun davanti e fàlle strada,
Chè quanto giunge taglia insino all’osso:
Tal fende al petto e tale alla cintura;
E chi non giunge, caccia di paura.
 
14- Fu in breve spazio sbarrattato il piano,
E abbandonato con la dama il carro:
Fuggì ciascuno che volse esser sano,
Morto quel capo lor poltron bizzarro:
E nell’arcion la dama con la mano
Trassesi presto più ch’io non vel narro,
E via fuggendo quella dama porta,
E con parol’ la inánima e conforta.
 
15- Lontana da Valenzia la condusse,
Sempre* 10 spronando forte il suo destriero,
Tanto che esistimò che salva fusse,
Nè più di essere offesa ebbe pensiero;
E in ripa a un fiume appunto la ridusse,
Ove era naturale un bel verziero
Di mille frutti ed erbe delicate,
Vaghe di sua verdura e di odor grate.
 
16- Ivi slegòlla, e gli occhi le disciolse,
E in terra dall’arcion ripose quella;
E alquanto riposarse anch’essa volse,
E allor d’un salto si levò di sella:
Dappoi la dama appresso si raccolse,
Guardòlla in viso, e ben le parve bella;
Chè per la benda che avea agli occhi involta,
Bellezza l’era e la apparenzia tolta.
 
17- E súbito pietà di quella prese
Maggior che pria la forte Bradamante,
E all’altra dama chi fusse chïese,
E qual cagion la indusse a pene tante.
Quella, che sempre Bradamante crese
Esser non donna ma barone aitante,
Rimase del suo onore in gran sospetto,
E più d’un gran sospir gittò dal petto.
 
18- Poi le rispose:—Sappi, cavaliero
Che per mio ben da Dio fusti mandato,
Che di ciò che mi chiedi io dirò il vero,
Chè molto ben da me l’hai meritato.—
Ma perchè dirvel poi più ad agio io spero,
Queste per or vi lasso in quel bel prato,
Che poi fûr, per averle nelle mani,
Assai cercate da’ Valenzïani.
 
19- Le dame io lasso ed a Ranaldo io torno,
Che disturbato fu dal suo piacere;
Nè fu sì lieto mai quanto quel giorno,
Se si potéa la dama allor godere;
Onde restònne cum disconcio19 e scorno,
Chè ben perfetto non si puote avere:
E súbito al rumor recòssi in mano
La sua Fusberta il sir di Montalbano.
 
20- Riguarda quello, e vede giù da un monte
Scendere un toro fra tre vacche belle;
E un pastor grande, che di fresco monte
Tutte le aveva, seguitava quelle,
Che avea un sol occhio in mezzo della fronte:
Nè già vi scrivo favole e novelle,
Che grande era quell’occhio a ponto a ponto
Quanto quattro comuni, a giusto conto.
 
21- Questo non crederà qualche vulgare
Che poco sale nella zucca serra;
Chè sol dà fede a quel che all’occhio appare
Il vulgo ignaro, che vaneggia ed erra:
Come che21 a un cieco descriveste il mare
Quanto sia grande, e i monti della terra,
E la torr’ di Babel, e che vi è gente
Che tutta è nera, crederebbe niente.
 
22- Ma talor più ragion che ’l senso vede,
Che lo intelletto è di maggiore altezza,
E i mostri di natura esser concede,
Anzi più volte il sentimento sprezza.
Chi credería che ’l Sol, che par d’un piede,
A noi che siam qua giuso, di grandezza,
Della Terra maggior sia per natura
Centosessantasei volte a misura?
 
23- Se creder non volete a’ scritti miei,
Prestate fede almeno al buon Turpino;
Credete il ver, ch’il falso io non direi:
Non son greco bugiardo, ma latino.
Chi crederebbe l’essenzia di Dei,
La provvidenzia e l’ordine divino?
La fede è sol del certo incerto a nui:
Credete mo’ quel che ne piace a vui.
 
24- Ora tornando al mio primo proposto,
Le vacche costui guida alla campagna;
È, come sopra vi narrai, composto
Lungamente pastor, nasciuto in Spagna;
Ma di veder la Franza era disposto,
Chè del steril paese assai si lagna,
Quale è gran parte nel paese Ispano:
Però se n’è partito e va lontano.
 
25- E dove era Ranaldo con Ismonda,
Appunto appunto si trovò per caso.
Ranaldo, che sua sorte assai gioconda
Sturbar si vede e n’è privo rimaso,
Tanto si sdegna e tal furor gli abbonda,
Che fôco soffia per la bocca e naso;
E, con Fusberta in mano, a gran furore
Andò Ranaldo centra a quel pastore.
 
26- Più non si mosse allor quel rozzo e brutto
Pastor, come ivi alcuno non vedesse,
E che securo si trovasse in tutto,
O contra a lui un fanciullino avesse;
E mossesi il gran tor’, quale era instrutto,
Che se in lor danno alcuno si movesse,
Debbia quel toro con le corna urtarlo,
E con quel colpo occiderlo o atterrarlo.
 
27- Mossesi il toro allor con gran rovina,
E a un urto riversò Ranaldo al piano:
Proprio nel ventre, con la fronte china,
La bestia gli fermò quel colpo strano.
Tramortito è Ranaldo, e la meschina
Ismonda piagne e si lamenta in vano;
Chè súbito il pastor quella pigliava,
E in mezzo alle tre vacche la cacciava.
 
28- Come una belva fosse o un’altra vacca,
Innanzi si cacciava Ismonda bella;
E così nell’onor la offende e smacca,
Che assai più che ’l timor molesta quella.
Nel cuor dogliosa e già nel pianger stracca,
Non ardisce gridar, nè pur favella;
Però che, se piangesse, avea timore
Che ’l tor’ non la offendesse o quel pastore.
 
29- Così lassando oppresso il suo campione,
Ismonda fra le vacche camminava:
Il mostro, che chiamato era Burone,
A un folto bosco oscuro la guidava:
La giovane tra sè chiama Macone;
Ma nulla alla meschina allor giovava.
Prima tre or’ che fusse risentito,
Stette Ranaldo in terra tramortito.
 
30- Ma poi che fu risorto, a Ismonda il côre
Súbito volse ed ogni suo pensiero.
Come colui che le portava amore,
E per cercarla ascese il suo destriero;
Nè la vedendo, scoppia di dolore,
Che pur potette assai, a dire il vero:
Maledisse il pastore e la fortuna,
E intanto giunse allor la notte bruna.
 
              (Manca la continuazione.)
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