Guido Gozzano

L’ipotesi

I.
 
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...
 
E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie.
 
II.
 
Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa...
 
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un’antichissima villa remota del Canavese...
 
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca,
 
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
 
un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone...
 
un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
 
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...
 
III.
 
Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d’un giorno d’estate, nel mille e... novecento... quaranta.
 
(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)
 
Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l’antico frutteto darebbe i medesimi frutti).
 
Sopita quell’ansia dei venti anni, sopito l’orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).
 
Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).
 
Vivremo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città...
 
la figlia: “...l’evento s’avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza...”
 
il figlio: "...la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese".
 
Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d’eleganza forbita.
 
IV.
 
Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.
 
Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei – sui settanta – tornato nella gioventù clericale,
 
poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
 
V.
 
Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d’adesso...
 
E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi...
 
Verreste, amici d’adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!
 
Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.
 
Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.
 
Ma non è senza bellezza quest’ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!
 
La sala da pranzo degli avi più casta d’un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.
 
La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,
 
di fumo di zigaro, a nimbi... La sala da pranzo, l’antica
amica dei bimbi, l’amica di quelli che tornano bimbi!
 
VI.
 
Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l’aria tranquilla
si cenerebbe all’aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.
 
Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio...
 
Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell’ora che trillano i grilli, che l’ago solare s’arresta
 
tra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all’assalto
e l’ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.
 
E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d’eleganza forbita:
 
“Il cielo si mette in corruccio... Si vede più poco turchino...”
“In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.”
 
“Peccato!”– “Che splendide sere!”– “E pur che domani si possa...”
“Oh! Guarda!... Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!”
 
Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.
 
“Ah! Sono così malaccorte le cuoche... Permesso un istante
per vigilare la sorte d’un dolce pericolante...”
 
Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l’opera delle sua mani.
 
E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l’omaggio appena raccolto.
 
Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!
 
Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!
 
E l’uve moscate più bionde dell’oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,
 
l’enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose
 
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici.
 
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!
 
Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini...)
 
Parlare d’amore, di belle d’un tempo... Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).
 
Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
“Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!”
 
“Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!”
 
“Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l’arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo...”
 
Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.
 
Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
—"Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?”
 
Allora, tra un riso confuso (con pace d’Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.
 
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes...
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
—Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! -
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo...
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l’alto mare:
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all’in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora...
 
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta...
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