Guido Gozzano

Dei bruchi

Redimita di fronde agropungenti -
ahi! non d’alloro– la mia Musa canta.
Alti cespi d’ortica alzano intorno
alle mie carte un cerchio folgorante,
mensa ed albergo ai numerosi alunni.
Dalle schiuse finestre entra l’Estate;
brilla sui campi, sul tripudio verde,
puro l’abisso cerulo del cielo.
A me dintorno un crepitìo di pioggia
fanno le lime assidue infinite
degli alunni famelici. Da tempo
convivo solo, con la mia brigata.
Animarsi dal cumulo dei semi
li vidi quasi miglio germinante,
piccoli, inermi, sotto tende lievi,
in groppo avvinti, trarre i giorni primi.
Volsero i giorni, crebbero gli alunni;
per ben tre volte usciti di se stessi
tre volte tanto apparvero voraci.
Or fatti pesi, flettono le cime
della mia selva, ammantano le foglie
con loro mole fosca, irta di punte.
 
Inorridite? Nulla v’ha d’orrendo
per chi fissa le linee le tinte
con occhi nuovi, sempre bene aperti.
Meditiamo i villosi prigionieri
senza ribrezzo, con pietà fors’anco,
se pietà di lor vita oscura e prona
non dileguasse la speranza certa:
il guiderdone del risveglio alato.
Tratto ad inganno un bruco, ecco, abbandona
l’ospiti foglie, segue la mia mano:
considerate senza abbrividire
quanta pose Natura intorno a lui,
dotta nei suoi lavori, intima cura!
E quanti occhi gli diede a che d’intorno
scorger potesse in ogni dove e quante
ha per muoversi zampe e varie: alcune
squammose adunche forti, zampe vere
della farfalla apparitura: alcune
brevi aderenti flaccide contrattili:
atte al passo del bruco sulle foglie,
come ginnasta bene assicurato.
 
Mirabile è la bocca, ordigno armato
d’acute lime in gemina ordinanza.
Concavo un labbro chiude nell’incavo
il margine fogliare che due salde
mandibole con moto orrizzontale
tagliano a scatto, in guisa di cesoja.
Sotto queste maggiori altre minori
mandibole triturano le fibre,
quattro palpi n’adunano il tritume;
tra quelli e queste un foro sericìparo
svolge all’aria un sottil filo di seta.
Ma piaccia a voi questo cristallo terso
all’occhio intento sottoporre, mentre
con lama breve, dentro chiara coppa,
la necessaria vittima divido.
Come in un bosco l’intrecciata massa
di rami e ramuscei fende le nubi,
così, ma con più bello ordin, vedete
quale per lungo dell’aperto dorso
va di tremila muscoli la selva:
ecco il sangue che scorre i molti vasi
di rete in guisa da Natura orditi
e le vie mirabili dell’aria
ad ogni nodo rinnovate e il cuore
come collana multipla che pulsa
del corpo in ogni dove e i molti ventri
e del dorso la spina in tanti nodi
divisa e l’ammirabile del capo
figura interïor eccovi aperta.
Questo– benché più delicato ordigno
offra il bombice industre– è il laberinto
misterïoso della seta fusa.
Discende il vaso dall’estrema bocca,
come fiume che va, poi si biparte;
dall’una e l’altra banda i rami pari
s’avvolgono ai precordi intimi e dove
l’uno si fa maggior pur l’altro è tale;
poi, quasi giunti al fin, piegano e al capo
ascendono e giù tornano ed ascendono,
elaborato alfin recano al labbro
l’umor tenace che diventa seta;
non altrimenti il sangue dei vulcani
s’addensa all’aria in rivoli di lava.
 
Ma, oimè, che vedo? Addormentata quasi,
esanimi gli sguardi, con la mano
un mal frenate languido sbadiglio!
Che più? Si tace il crepitìo di pioggia:
i bruchi alunni in vario atteggiamento
mi stanno intorno addormentati tutti
mirabilmente! Vince Anatomia
le droghe oppiate dell’Arabia estrema.
Amica sonnacchiosa e perdonate,
voi nata al sogno libero e alla grazia,
perdonate la Musa pazïente
osservatrice. Ben s’addice al lento
trasmutare dei bruchi prigionieri;
più tardi, al tempo del risveglio alato,
anch’essa certo spiegherà nei cieli
l’ali del sogno per seguirli a volo.
Eccoli intanto, bruchi tuttavia,
stinto il velluto, tumefatti i nodi,
eretto il capo immobile, le zampe
fisse alle foglie da sottili bave,
giacersi infermi nella sesta muta.
Per tutto un giorno in torpida quiete
uno spasimo ignoto li tormenta:
essere un altro, uscire di se stessi!
Uscire di se stessi! E li vedete
or gonfiarsi, or contrarsi, ora dibattersi,
or delle membra tremule far arco,
fin che sul terzo nodo ecco si fende
l’antica spoglia e sul velluto stinto
vivida splende la divisa nuova.
Ed uno appare in due e due in uno,
ma già l’infermo tutto si distorce,
come da un casco liberando il capo
dal capo antico, dalle antiche zampe
le antiche zampe liberando, lento
movendo già, lasciandosi alle spalle
quegli che fu, come guaina floscia.
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