Guido Gozzano

Della cavolaia

Pieris brassicae

Se la Vanessa ed il Papilio sono
nobili forme alate e dànno immagine
d’un cavaliere e d’una principessa,
la Pieride comune fa pensare
una fantesca od una contadina.
È volgare, dal nome alla divisa
scialba, dal volo vagabondo al bruco
nero-verde, flagello delle ortaglie.
 
Ridotte queste a nuda nervatura,
i bruchi vanno su pei muri a mille,
fissano le crisalidi alle mensole,
ai capitelli, ai pepli delle statue,
curïose crisalidi, sorrette
alla vita da un filo e non appese,
angolari, sfuggevoli, aderenti,
concolori così col marmo e il muro
che lo sguardo le fissa e non le vede.
 
Se tutte si schiudessero, la Terra
sarebbe invasa d’ali senza fine.
Ma gran parte ha con sé, già nello stato
di bruco, i germi della morte certa.
Chi s’aggiri in un orto vede all’opra
il Microgastro, piccolo imenottero
dall’ali e dall’antenne rivibranti,
smilzo, cornuto, negro come un dèmone.
Vola, scorre sui bruchi delle Pieridi,
inarca, infigge l’ovopositore,
immerge nei segmenti della vittima
il germe della morte ad ogni assalto.
Ad ogni assalto il bruco si contorce,
ma quando il Microgastro l’abbandona
non sembra risentirsi dell’offesa:
cresce, vive coi germi della morte...
 
Vive e i germi si schiudono, le larve
del parassita invadono la vittima
ignara; ne divorano i tessuti,
ma, rette dall’istinto prodigioso,
non intaccano gli organi vitali.
Il bruco vive ancora, si tramuta
sognando il giorno del risveglio alato;
ma gli ospiti hanno uccisa la crisalide,
la fendono sul dorso e dalla spoglia
non la Pieride bianca, ma s’invola
uno sciame ronzante d’imenotteri.
 
Come in questa vicenda e in altre molte,
la Natura, che i retori vantarono
perfetta ed infallibile, si svela
stretta parente col pensiero umano!
Non divina e perfetta, ma potenza
maldestra, spesso incerta, esita, inventa,
tenta ritenta elimina corregge.
Popola il campo semplice del Tutto
d’opposte leggi e d’infiniti errori.
Madre cieca e veggente, avara e prodiga,
grande meschina, tenera e crudele,
per non perder pietà si fa spietata.
 
E quando vede rotta l’armonia
riconosce l’errore, vi rimedia
con nascite novelle ed ecatombi.
Essa accenna alla Vita ed alla Morte;
e le custodi appaiono, cancellano,
ritracciano la strada ed i confini.
 
La Cavolaia predilige gli orti,
l’attira il bianco delle case umane;
se scorge un muro, subito s’innalza,
lo valica, discende alla ricerca
di compagne festevoli ed ortaglie.
E l’istinto sovente la sospinge
nel cuor della città. Da primavera
a tardo autunno, giunge nelle vie.
E nulla è strano, come l’apparire,
dell’invïata candida degli orti
tra il rombo turbinoso cittadino.
Allora s’interrompe il ragionare
dell’amico loquace:– Una farfalla! -
 
Com’è giunta nel cuor della città?
Aveva la crisalide sui colli
oltre il fiume, nell’orto di una villa.
L’istinto delle razze numerose
sospinge la farfalla ad emigrare;
discese al piano, trasvolò sul fiume,
valicò gli edifici, immaginando
orti propizi e si trovò perduta,
prigioniera nel grande laberinto
di pietra che costrussero gli uomini.
Da ore ed ore, forse dal mattino,
s’aggira stanca per le vie diritte
dove non cresce un filo d’erba o un fiore.
Come si specchia nei diciottomila
occhi stupiti il turbinìo dell’uomo?
Forse a quei sensi minimi, la folla,
le case, i carri, quei corpi grandi
sono come la frana, il fuoco, l’acqua,
fenomeni malvagi da fuggirsi.
Fugge. L’attira un cespo semovente
di fiori finti, un cencio verde, azzurro,
si libra sulla folla, sull’intrico
metallico, tra il rombo e le faville,
e va senza riposo, un carro passa
e la travolge nella scia ventosa...
Con volo ravvivato dal terrore
cerca uno scampo in alto, sale obliqua
contro le case, attinge i tetti, il sole;
si ristora ad un cespo di geranii,
fugge lasciando un lembo d’ala a un mostro
tentacolare e candido: una mano;
vola sopra il deserto delle tegole
né più discende nelle vie profonde,
va tra la selva di colmigni spessi,
da tetto a tetto, va senza riposo.
Ed ecco aprirsi sotto la randagia
l’abisso verde di un giardino; scende
scende verso il colore che l’attira.
Il giardino è degli uomini: ingannevole.
Vi trova l’erba tenera, le fronde,
i fiori, una brigata di sorelle
sbandite, riparate in quell’oàsi.
 
Ma l’erba cittadina non ha steli;
gli alberi, mostri ignoti d’oltremare,
non hano nella fronda coriacea
un fiore. E l’uomo meditò nel fiore
l’ultima frode: suggellò il nettario,
con arte maga trasmutò gli stami
in multiple sorelle mostruose.
Le Pieridi s’aggirano sui fiori
tentano le azalee ed i giacinti,
ma le corolle suggellate al bacio
son come belle donne senza bocca.
Poche Pieridi trovano la via
dei campi. Grande parte è prigioniera
del chiuso laberinto cittadino;
e nel triste detrito che raccoglie
la scopa mattinale delle vie
biancheggiano falangi d’ali morte...
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