Ada Negri

Il giardino dell’adolescente

I.
 
Gli occhi.
La fanciulla ch’io sveglio in questi vani
versi, altra grazia non avea nel viso
che lo splendor degli occhi sovrumani.
 
Nessuno sguardo sostener potea
lo sguardo di quegli occhi, ove una fiamma
più intensa della vita era: l’Idea.
 
Lucean per rogo interno fra l’oscura
massa dei ricci, ammorbidendo il grave
profilo e il taglio della bocca pura.
 
Ogni raggio ogni fiore ogni diversa
beltà di cieli e di terrene forme
vi si specchiava come in acqua tersa,
 
e velavan le ciglia un sogno enorme.
 
II.
 
La stanza e il balcone.
Era nuda la stanza, con pareti
bianche di calce, un crocifisso al letto,
qualche libro nei freddi angoli queti.
 
Ma dal balcone Ella scorgea le frecce
delle rondini a volo—e libertà
irrompeva col vento nelle trecce:
 
e un aroma di prato e di boscaglia
acutamente dal giardin salìa
folle di rose e denso di ramaglia.
 
L’Adolescente in sè fingea le vite
colà viventi: erba che cresce, fronda
che svetta, arsa tristezza d’appassite
 
rose, palpito d’ala vagabonda.
III.
 
Re Sole.
Leggera Ella passava fra le ajuole:
pensava: Sono un fiore o una fanciulla?...
O son l’innamorata di Re Sole?...—
 
Le penetrava il sol dentro i capelli,
dentro le carni, con sottil delizia
saturando di forza i fianchi snelli:
 
onde di vita, onde di gioja acerba
s’abbattevan su lei, simili al vento
che bacia e piega al suo passaggio l’erba.
 
Ell’era una lucente creatura
di sole—nata pei meriggi, quando
su le rïarse terre la calura
 
sta come un rogo, immota balenando.
IV.
 
La via.
Dietro il cancello una solinga e tetra
via risognava il suo centenne sogno
e l’erba le crescea fra pietra e pietra.
 
Appuntava alle sbarre la sua faccia
l’Adolescente, con desìo febbrile
cercando il mondo sulla muta traccia:
 
ed il mondo per essa era una rete
di giardini e di strade, immerse in una
fulgida e profondissima quiete:
 
in quel silenzio un’eco di campane,
in quella luce uno sbocciar di fiori:
dietro le porte un balenío di strane
 
pupille, ardenti di secreti ardori.
 
V.
 
La gamma.
«Do re mi fa sol la....» La gamma eterna
da lontana invisibile tastiera
saliva e discendea con ansia alterna.
 
Saliva al par d’un’ala che s’avventi
al cielo, discendea con la ruina
precipite di frane e di torrenti:
 
in sè il principio d’ogni ritmo e l’onda
d’ogni cadenza e il vivo cuor del canto
chiudeva, innumerevole e feconda:
 
e all’anima fanciulla il senso della
vita apparve così, dentro una gamma;
ed ogni voce essa vi udì: da quella
 
dei sogni al disperato urlo del dramma.
 
VI.
 
I fiori del sogno.
Allor che il sonno la gettava inerte
sul capezzale, e in quel sopor parea
morta, nell’ombra, con le palme aperte,
 
tutti i suoi fiori Ella sognava.—In una
luce scialba e malata, che non era
notte, nè giorno, nè sole, nè luna,
 
simili a bocche umane le corolle
di viva carne protendeansi ai baci
dell’aria; ed altre sorridean con molle
 
riso, ed altre eran occhi, occhi splendenti
di passïone in volti di follia;
e mormoravan verso gli astri spenti
 
parole di divina nostalgia.
 
VII.
 
Il sangue.
Il sangue, il sangue!... Lo vedea, nel grembo
d’ogni fiore vermiglio, nelle nubi
d’alba e di vespro, nell’orror del nembo;
 
lo sentiva nel rombo d’ogni arteria,
denso, caldo, gagliardo, veemente,
sola ricchezza nella sua miseria.
 
Da quale avo guerriero quell’ebbrezza
del sangue a lei veniva, e, nel sognarlo,
quell’occulta spasmodica dolcezza?...
 
Fontanelle di sangue zampillare
scorgea dall’imo del suo cor profondo;
e d’un tragico rosso imporporare
 
ogni giardino ed ogni via del mondo.
 
VIII.
 
La visione.
A raccoglier nel cavo della mano
quel suo bel sangue dilagante a rivi,
venìan turbe, da presso e da lontano.
 
Le vesti in cenci lor cadean da’ fianchi,
avean nodose mani e scarni volti,
e labbra ansanti, come di chi manchi.
 
Col gesto d’una belva che si sazia
bevevano alla dolce fonte umana
generatrice di forza e di grazia.
 
E più scendea per vene sitibonde
il tesoro di vita, e più nel cuore
della Sognante rifluiva in onde
 
dense di succhi, turgide d’amore.
 
IX.
 
La vita.
Che voleva da lei la vita?...—Tutto.—
Ella sentiva d’esser sacra.—In lei
niun atomo poteva esser distrutto.
 
L’aria l’erba la terra il fiore il raggio
si trasmutavan nella sua sostanza
con la fecondatrice ansia del Maggio:
 
dalla punta del piede agile, al torso
nervoso, al casco dei capelli neri,
Ella era frutto che attendeva il morso.
 
Oh, vivere la piena vita!... Oh, fra le
avide mani stringerla, per sete
di spremerne ogni succo, ed anche il male,
 
e le più aspre verità segrete!...
 
X.
 
La partenza.
Un giorno Ella partì, per la sua strada.
Ogni energia per vincere temprata
aveva, in fiamma e in ghiaccio, al par di spada.
 
Vide paesi, vide ampie città.
Pulsar sentì nel suo fraterno cuore
il cuore enorme dell’umanità.
 
Le parve d’esser cento e d’esser mille.
Fu la donna del gran sogno vermiglio.
Nel sole abbacinò le sue pupille.
 
Ma a poco a poco si trovò smarrita,
nè seppe come.—Ognuno era scomparso.—
Si trovò sola, a mezzo della vita,
 
fra le sterpaglie d’un campo rïarso.
 
XI.
 
La nostalgia.
Ora vorrebbe, ma non può tornare
al tempio di sua fiera adolescenza.
O ricordo, o divina alba sul mare!...
 
Forse i rovi s’aggrappano alle porte,
ora: forse la quercia è rasa al suolo,
fra l’aggroviglio delle rose morte.
 
Che direbber, vedendola, i cancelli
arrugginiti?... «Ohimè, come diversa!...
Sei tu colei che aveva occhi sì belli,
 
labbra sì rosse, e qui tra fronda e fronda
crebbe, ed il lembo del suo cielo scôrse?...
Che cerchi, con la bocca sitibonda?...
 
Un sorso d’acqua?... Il sogno antico, forse?...»
 
XII.
 
Suora Morte.
—Come stanca!... Abbandònati sul fresco
terreno.—Ancor, mattina e sera, l’Ave
suona, in rintocchi píi, da San Francesco.
 
Ti ricordi di quando eri fanciulla?...
Contavi ad uno ad uno i lunghi steli
dell’erba, e d’essi ti facevi culla....
 
Se la tua carne soffre e vuol dormire,
oh, nulla qui ti sveglierà, nemmeno
le rondinelle coi lor voli a spire.
 
Cresceranno dal tuo corpo sottile
cespi di menta e violette smorte,
e tu respirerai l’antico Aprile
 
per sempre....—Benvenuta, Suora Morte.»

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