Ludovico Ariosto

Elegie lV

Non è più tempo omai sperar ch’io pieghi
Un’alma altiera, un’indurata spoglia,
Con lunga servitù, con lunghi preghi:
    Ma ben temp’è sperar che un sdegno scioglia
Il laccio in che mi prese, e, preso, a lei
Mi diede Amor, con mia perpetua doglia.
    Non è più tempo ch’al bel viso, a’ bei
Sembianti, all’accoglienze belle io vôlti
Quest’incarcati e crudeli occhi miei:
    Ma ben temp’è mirar che se raccolti
Son i costumi in lei degni di loda,
Degni di biasmo ancor ve ne son molti.
    Non è più tempo che ’l parlar dolce oda,
Che mai con l’intenzion non si conforma;
Nè temp’è più che di lusinghe io goda:
    Ma temp’è da dar fede a chi m’informa
Qual sia la falsitade e qual il vero,
E ch’ire a miglior via m’insegna l’orma.
    Non è più tempo star in quel pensiero
Ch’alto mi leva sì, ch’abbrucia l’ale,
Ma poi torna cadendo al luogo vero:
    Ma ben temp’è sperar2 quanto sia il male,
Quanto il bene, e stimar l’utile e ’l danno,
Rendere alla fatica il premio uguale.
    Non è più tempo a lei mostrar l’affanno
E domandar mercè, chè mie parole
Senza frutto coi venti in aria vanno:
    Ma ben temp’è narrando3 a chi console,
E mi curi, e m’insegni a liberarmi;
Però che al mal rimedio esser pur suole.
    Non è più tempo ch’a memoria trarmi
Debba, quando talor parve cortese
D’un dolce sguardo, e degnava parlarmi:
    Ma ben tempo è mirar l’ore mal spese,
Oltraggi, gelosíe, tanti martirî,
Suo’ sdegni ingiusti, e mille e mille offese.
    Non è più tempo che per lei sospiri,
E quindi vento alle gonfiate vele
Alla altezza4 sua da me s’aspiri:
    Ma ben temp’è che il sospirar rivele,
De’ giorni persi mi rincresca, quanto
Non poterne sperar lungi querele.
    Non è più tempo che mie luci in pianto
Estinguer lasci, benchè fusser quelle
Che mia nemica al côr laudavan tanto:
    Ma temp’è ritirarle infino ch’elle
Veggian vendetta, che via il tempo porti
Maggior pietate alle maniere belle.
    Non è più tempo che il desir trasporti
Miei passi, che per lei cerchino i tempî,
Sale, teatri, vie, campagne ed orti:
    Ma ben tempo è fuggir da’ suoi lumi empî,
Pari in effetto a quei del basilisco,
Perchè più Amor del suo veleno m’empi.
    Non è più tempo in stil moderno e prisco
Ch’io cerchi che sua fama eterna viva,
Ch’alla superbia sua materia ordisco:
    Ma ben temp’è ch’io pensi, parli scriva,
Di dì, di notte, ove io mi fermi vada,
Quanta causa a mia morte indi deriva;
    Talchè stia in sella Sdegno, ed Amor cada.

Note
1- Fu messa in luce da Francesco Trucchi nel tomo III delle Poesie italiane inedite di dugento autori, dall’origine della lingua in fino al secolo decimosettimo (Prato, Guasti, 1846-47). Afferma l’editore di averla tratta dal codice 873 della Libreria Magliabechiana.
2- Dove il verbo sperare, in questo senso, non è in uso, dicesi invece Guardar contro il lume, o contro la luce. 3-Qui, per similitudine, nel senso di Considerare minutamente.
3- Fors’è da correggersi: narrarlo.
4-Forse: All’ (o Dell’) alterezza.

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