Guido Gozzano

Il frutteto

Anche né malinconico né lieto
(forse la consuetudine assecondo
cara d’un tempo al bel fanciullo biondo)
oggi varco la soglia del frutteto.
 
Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
È bene questo il luogo; in questa calma
conchiusa, certo l’intangibil salma
giacque per sempre dell’amor ucciso,
 
del vero antico Amore ch’io cercai
malinconicamente per l’inquieta
mia giovinezza, la raggiante mèta
sì perseguìta e non raggiunta mai.
 
Or mi soffermo con pupille intente:
le cose mi ritornano lontano
nel Tempo – irrevocabile richiamo! –
mi rivedo fanciullo, adolescente.
 
O belle, belle come i belli nomi,
Simona e Gasparina, le gemelle!
Pur vi rivedo in vesta d’angelelle
dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.
 
Ed anche qui le statue e le siepi
ed il busso ribelle alle cesoie.
(Natali dell’infanzia, o buone gioie,
quando n’ornavo i colli dei presepi!)
 
Ma sull’erme, sui cori, sopra il busso
simmetrico, sui lauri, sugli spessi
carpini, sulle rose, sui cipressi,
sulle vestigia dell’antico lusso
 
da cento anni un folto si compose
di pomi e peri; il regno statuario
ricoperse; nel florido sudario
sfiorirono le siepi delle rose;
 
nell’ombre il musco ricoperse i cori
curvi di marmo intatto (l’Antenata
non vede lo sfacelo, contristata?)
e nell’ombre languirono gli allori.
 
Son l’ombre di una gran pace tranquille:
il sole, trasparendo dall’intrico,
segna la ghiaia del giardino antico
di monete, di lunule, d’armille.
 
M’avanzo pel sentiero ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto;
ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d’un frutto.
 
Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
in terra, sui busseti, sui rosai:
sire Autunno, quest’anno come mai,
munifico vuotò la cornucopia.
 
O gioco strano! Pur nella faretra
di Diana cadde una perfetta pera,
così perfetta che non sembra vera
ma sculturata nell’istessa pietra.
 
Il frutto altorecato assai mi tenta:
balzo sul plinto, il dono della Terra
tolgo alli acuti simboli di Guerra,
avvincendomi all’erma sonnolenta.
 
S’adonta ella, forse, ch’io la tocchi,
l’erma dal guardo gelido e sinistro?
(il tempo edace lineò di bistro
le palpebre lapidee delli occhi).
 
Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
attirante, soffuso di promesse,
–O miti elleni! – s’ella mi stringesse
d’improvviso, così, tra le sue braccia! -
 
E tolgo e mordo il frutto avventurato
e mi pare di suggere dal frutto
un’infinita pace, un bene, tutto
tutto l’oblio del tedio e del passato.
 
Ma guardo in torno. Vedo teoria
d’erme ridenti in loro bianche clamidi,
ridendi tra le squallide piramidi
del busso.– Torna la malinconia:
 
Ridevano così quando mio padre
esalò la grande anima e pur tali
(udranno allor le mie grida mortali?)
sorrideranno e morirà mia madre.
 
Ridevano così che nella culla
dormivo inconsapevole d’affanno:
implacabili ancor sorrideranno
quando di me non resterà più nulla.
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