Guido Gozzano

Il commesso farmacista

Ho per amico un bell’originale
commesso farmacista. Mi conforta
col ragionarmi della sposa, morta
priva di nozze del mio stesso male.
 
“Lei guarirà: coi debiti riguardi,
lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;
ma pensi una modista, in un negozio...
Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.
 
Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.
Pagai le spese del viaggio. E costa!
Vede quel muro bianco a mezza costa?
È il cimitero piccolo e selvaggio.
 
Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.
La dovevo sposare nell’aprile;
nell’aprile morì di mal sottile.
Vede che piango... non me ne vergogno.”
 
Piangeva. O morta giovane modista,
dal cimitero pendulo fra i paschi
non vedi il pianto sopra i baffi maschi
del fedele commesso farmacista?
 
“Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
a sera, di svagarmi; lo potrei...
Preferisco restarmene con lei
e faccio versi... non me ne vergogno.”
 
Sposa che senza nozze hai già varcato
la fiumana dell’ultima rinunzia,
vedi lo sposo che per te rinunzia
alle dolci serate del curato?
 
Vedi che, solo, e affaticati gli occhi
fra scatole, barattoli, cartine,
preferisce le tue veglie meschine
alle gioie del vino e dei tarocchi?
 
“Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio;
poi, sarebbe un’offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti.
 
Mi pare che soltanto al cimitero,
protetti dalle risa e dallo scherno
i versi del mio povero quaderno
mi parlino di lei, del suo mistero.”
 
Imaginate con che rime rozze,
con che nefandità da melodramma
il poveretto cingerà di fiamma
la sposa che morì priva di nozze!
 
Il cor... l’amor... l’ardor... la fera vista...
il vel... il ciel... l’augel... la sorte infida...
Ma non si rida, amici, non si rida
del povero commesso farmacista.
 
Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch’egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.
 
Egli certo non pensa all’euritmia
quando si toglie il camice di tela,
chiude la porta, accende la candela
e piange con la sua malinconia.
 
Egli è poeta più di tutti noi
che, in attesa del pianto che s’avanza,
apprestiamo con debita eleganza
le fialette dei lacrimatoi.
 
Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
saputi all’arte come cortigiane,
in modi vari, con lusinghe piane
tentiamo il sogno per piacere agli altri.
 
Per lui soltanto il verso messaggiero
va dal finito all’infinito eterno.
“Vede, se chiudo il povero quaderno
parlo con lei che dorme in cimitero.”
 
A lui soltanto, o gran consolatrice
poesia, tu consoli i giorni grigi,
tu che fra tutti i sogni prediligi
il sogno che si sogna e non si dice.
 
“Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio:
poi sarebbe un’offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti.”
 
Saggio, tu pensi che impallidirebbe
al mondo vano il fiore di parole
come il cielo notturno che lo crebbe
impallidisce al sorgere del sole.
 
Di me molto più saggio, che licenzio
i miei sogni, o fratello, tu mantieni
intatti fra le pillole e i veleni
i sogni custoditi dal silenzio!
 
Buon custode è il silenzio. E le tue grida
solo la morta giovane modista
ode: non altri della folla, trista
per chi fraternamente si confida.
 
Non si rida, compagni, non si rida
del poeta commesso farmacista.
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