Nenè

Diluvio

Cosa casca dai cieli torvi
tra i queruli canti stinti nei viali–
Aghi di tedio, rostri di corvi
o fini dolori in madidi strali?
Chi ora lacrima dall’empireo–
L’occhio divino o quello paterno?
Chi s’affligge nell’alto vitreo–
il padre che fu o il padre suo eterno?
Cantami, o anima, l’insidia profonda
occulta nei dardi di questo diluvio,
l’aria esangue, intirizzita e piovorna
che d’un petricore porta l’effluvio
alle narici nude e vaporose.
Tu canta, rivela la dotta favella!
Annuncia del mane riottoso
l’ira, che la quiete umana arrovella.
E se qui ritorna, annuncia del raggio
la sottile forma spansa, la luce.
Canta l’amore, forte di coraggio,
che il cuor dilania e il cuor ricuce.
Così riporta la gioia nel petto
fiorita nel giorno d’Eros pandemio,
il quale per gioco o per suo dispetto
scoccò sulle carni nude il suo genio
e del mio e d’altrui verbo fece mancipi.
Dove la pioggia sgorga e discende,
là il dolor mio ha infiniti principi,
ma qui ad un felice palpitar s’arrende.

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