#ScrittoriItaliani
Non uccidete il mare, la libellula, il vento. Non soffocate il lamento (il canto!) del lamantino. Il galagone, il pino:
Così di rado l’ho visto e, sempre, così di sfuggita. Una volta, o m’è parso, fu in uno dei più bui cantoni d’un bar, al porto.
Quanti se ne sono andati... Quanti. Che cosa resta. Nemmeno il soffio.
Mi sono risolto. Mi sono voltato indietro. Ho scorto uno per uno negli occhi i miei assassini.
L’occasione era bella. Volli sperare anch’io. Puntai in alto. Una stella o l’occhio (il gelo) di Dio?
Un’idea mi frulla, scema come una rosa. Dopo di noi non c’è nulla. Nemmeno il nulla, che già sarebbe qualcosa.
Buttate pure via ogni opera in versi o in prosa. Nessuno è mai riuscito a dire cos’è, nella sua essenza, una rosa…
Non credo che questo sia il fischio del bracconiere. C’è troppa nebbia. Comunque (qui son le carte) finite voi la partita. Io
Tutti riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi, né che sia. Soltanto ne conserviamo –pungente e senza condono –
Ho provato a parlare. Forse, ignoro la lingua. Tutte frasi sbagliate. Le risposte: sassate.
Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare È stato tutto un restare
Le parole. Già. Dissolvono l’oggetto. Come la nebbia gli alberi, il fiume: il traghetto.
Andavo. Andavo. Cercavo dove poter sostare. Ero ormai sul discrimine. Dove finisce l’erba e comincia il mare.
Aveva posato la sua lanterna sul prato. Aveva allargato le braccia. Tutto quel sole. Tutto
Ricordo una chiesa antica, romita, nell’ora in cui l’aria s’arancia e si scheggia ogni voce sotto l’arcata del cielo.