Dancing Fairies, by August Malmström
Gabriele D'Annunzio

Ditirambo II

IO fui Glauco, fui Glauco, quel d’Antèdone.
Trepidar ne’ precordii
sentii la deità, sentii nell’intime
midolle il freddo fremito
della potenza equorea trascorrere
di repente, io terrìgena,
io mortal nato di sostanza efimera,
io prole della polvere!
Memore sono della metamorfosi.
L’anima si fa pelago
nel rimembrare, s’inazzurra ed èstua,
e le foci vi sboccano
dei mille fiumi che mi confluirono
sul capo; nel rigùrgito
immenso novamente par dissolversi
quest’ossea compagine.
O Iddii profondi, richiamate l’esule,
però ch’ei sia miserrimo
nella sua carne d’acro sangue irrigua,
lasso ne’ suoi piè debili
che per lotosi tramiti s’attardano,
dopo ch’ei fu l’indomita
 
 
forza del flutto convertita in muscoli
tòrtili per attorcere,
dopo che le correnti dell’Oceano
gli furon gioco a tessere
le divine di sé vicissitudini
come su trama vitrea.
O Iddii profondi, richiamate l’esule
triste, purificatelo
sotto i fiumi lustrali ìnferi e sùperi,
la deità rendetegli!
 
Memore sono. Era già fatto il vespero
su l’acque; ma i cieli ultimi
ardevano d’un foco inestinguibile,
e i golfi e i promontorii
e l’isole di contro negreggiavano
come are senza vittime
già notturni, allorché sostai nel pascolo
nettunio, presso il limite
marino. Onusto di gran preda, sùbito
votai su l’erbe e i nèssili
miei lini a noverar la mia dovizia.
Poi del confuso cumulo
feci schiere ordinate. E in cor godevami
tante squame rilucere
 
 
veggendo per quel bruno intrico. “I nèssili
miei lini e i piombi e i sugheri
t’appenderò nel tempio, o dio propizio
in cor disse il grato animo.
E allora vidi i pesci più risplendere,
vidi le pinne battere
e le branchie alitare e per le scaglie
lampi di forza correre.
E, come quando il nume di Diòniso
invade le Bassaridi
e si disfrena giù pe’ monti il Tìaso,
la muta gente parvemi
infuriare, cedere a un’incognita
virtù, di sacra fervere
insania. “Qual prodigio è questo? Ahi misero
me! gridai per grandissimo
spavento; ché la preda mia fuggivasi
a gara con vipèrea
rapidità, balzando e dileguandosi.
“Me misero! Un dio fecemi
questo? o nell’erba è la possanza? Attonito
mi rimasi. Il silenzio
era divino nella solitudine.
Era già fatto il vespero,
ma lungamente i cieli ultimi ardevano.
Udir parvemi bùccina
 
 
cupa sonar lungh’essi i promontorii
selvosi; udire parvemi
canti fatali spandersi dall’isole.
E quasi inconsapevole
la man correami per quell’erba strania,
meditando io nell’animo
il prodigio. Divelsi dalle radiche
gli steli foschi; e, simile
a capra di virgulti avida, mordere
incominciai, discerpere
e mordere. Rigavami le fauci
il suco, ne’ precordii
scendeami, tutto il petto conturbandomi.
“O terra! gridai. Fumida
era la terra intorno come nuvola
che fosse per dissolversi
ne’ cieli, sotto i piedi miei fuggevole.
E un amor terribile
sorgeva in me, dell’infinito pelago,
dell’amara salsedine,
degli abissi, dei vortici e dei turbini.
La mia carne era libera
della gravezza terrestre. Nascevami
dall’imo cor l’imagine
d’un’onda ismisurata e per le pàlpebre
mi si svelava il cerulo
 
 
splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri
dilatarsi parevano
e le ginocchia giugnersi, le scaglie
su per la pelle crescere,
gelidi guizzi correre pei muscoli.
“Terra, vale! Precipite
caddi nel gorgo, mi sommersi, l’infima
toccai valle oceanica,
uomo non più, non anco dio, ma immemore
della terra e degli uomini.
 
Fiumi correnti, odo il sublime sònito
di voi sempre nell’anima,
fiumi sgorganti d’ogni scaturigine,
leni di pace o rauchi
di violenza, caldi come l’aure
nove che v’arrecarono
l’alluvione copiosa o frigidi
come i nivali vertici
onde scendeste inviolati, d’auree
sabbie flavi o sanguinei
d’argille, pingui di limo o più limpidi
che l’etere sidereo!
Cento e cento passarono passarono
sul mio capo. La fluida
 
vita dell’orbe mi fluì su gli òmeri
proni, con ineffabile
melodia. L’Acheronte, il gran tartareo
pianto, anche sentii volvere
su me nel cieco suo pallore i petali
rapiti al prato asfòdelo.
Tutte l’acque rombarono crosciarono
su me sommerso, tolsero
ogni terrestrità dal corpo immemore
della sua dura nascita.
E mi risollevai dio verso l’etere
santo; spirai grande alito
che una nave d’eroi sospinse. Io auspice
apparvi agli Argonauti!
Di su la prora chino il cantor tracio
raccolse il vaticinio.
E presso lui, d’oro chiomato, florido
della prima lanugine,
(sentendo l’immortalità, saltavagli
il cuore sotto il bàlteo
splendido) presso Orfeo figlio d’Apolline
era il fratello d’Elena.
 
 
 
O Iddii profondi, richiamate l’esule,
la deità rendetegli!
 
Io fui Glauco, fui Glauco, quel d’Antèdone.
La terra m’è supplizio.
Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero,
e per ovunque è tenebra.
O nunzia di prodigi Alba oceanica!
Nel gorgo mi precipito.
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