Amor, tu vedi, e non hai duolo o sdegno,
Ch’al giogo altrui madonna il collo inchina:
Anzi ogni tua ragion da te si cede.
Altri ha pur fatto, oimé, quasi rapina
5Del mio dolce tesoro; or qual può degno
Premio agguagliar la mia costante fede?
Qual piú sperar ne lice ampia mercede
De la tua ingiusta man, s’in un sol punto
Hai le ricchezze tue diffuse e sparte?
Anzi pur chiuse in parte
Ove un sol gode ogni tuo ben congiunto.
Ben folle è chi non parte
Omai lunge da te, che tu non puoi
Pascer se non di furto i servi tuoi.
Ecco già dal tuo regno il piè rivolgo,
Regno crudo e ’nfelice: ecco io già lasso
Qui le ceneri sparte e ’l foco spento.
Ma tu mi segui e mi raggiungi, ahi lasso!;
Mentre del mal sofferto in van mi dolgo,
Ch’ogni corso al tuo volo è pigro e lento.
Già via piú calde in sen le fiamme i’ sento
E via piú gravi a’ piè lacci e ritegni;
E come a servo fuggitivo e ’ngrato,
Qui, sotto al manco lato,
D’ardenti note il cor m’imprimi e ’l segni
Del nome a forza amato;
E perch’arroge al duol ch’è in me sí forte
Formi al pensier ciò che piú noia apporte.
Ch’io scorgo in riva al Po Letizia e Pace
Scherzar con Imeneo, che ’n dolce suono
Chiama la turba a’ suoi diletti intesa.
Liete danze vegg’io, che per me sono
Funebri pompe, ed una istessa face
Ne l’altrui nozze e nel mio rogo accesa;
E, come Aurora in oriente ascesa,
Donna apparir, che vergognosa in atto
I rai de’ suoi begli occhi a sé raccoglia,
E ch’altri un bacio toglia
Pegno gentil del suo bel viso intatto,
E i primi fior ne coglia,
Que’ che già cinti d’amorose spine
Crebber vermigli infra le molli brine.
Tu ch’a que’ fiori, Amor, d’intorno voli
Qual ape industre e ’n lor ti pasci e cibi
E ne sei cosí vago e cosí parco,
Deh, come puoi soffrir ch’altri delibi
Umor sí dolce e ’l caro mèl t’involi?
Non hai tu da ferir saette ed arco?
Ben fosti pronto in saettarmi al varco
Allor che per vaghezza incauto venni
Là ’ve spirar tra le purpuree rose
Sentii l’aure amorose;
E ben piaghe da te gravi io sostenni,
Ch’aperte e sanguinose
Ancor dimostro a chi le stagni e chiuda;
Ma trovo chi l’inaspra ognor piú cruda.
Lasso! il pensier ciò che dispiace e duole
A l’alma inferma or di ritrar fa prova
E piú s’interna in tante acerbe pene.
Ecco la bella donna, in cui sol trova
Sostegno il core, or, come vite suole
Che per sé stessa caggia, altrui s’attiene:
Qual edera negletta or la mia spene
Giacer vedrassi, s’egli pur non lice
Che s’appoggi a colei ch’un tronco abbraccia.
Ma tu, ne le cui braccia
Cresce vite sí bella, arbor felice,
Poggia pur, né ti spiaccia
Ch’augel canoro intorno a’ vostri rami,
L’ombra sol goda e piú non speri o brami.
Né la mia donna, perché scaldi il petto
Di nuovo amore, il nodo antico sprezzi,
Che di vedermi al cor già non rincrebbe:
Od essa che l’avvinse essa lo spezzi;
Però ch’omai disciorlo, in guisa è stretto,
Né la man stessa che l’ordío potrebbe.
E se pur, come volle, occulto crebbe
Il suo bel nome entro i miei versi accolto
Quasi in fertil terreno arbor gentile,
Or seguirò mio stile,
Se non disdegna esser cantato e cólto
Da la mia penna umíle;
E d’Apollo ogni dono in me fia sparso
S’Amor de le sue grazie a me fu scarso.
Canzon, sí l’alma è ne’ tormenti avvezza,
Che, se ciò si concede, ella confida
Paga restar ne le miserie estreme.
Ma se di questa speme
Avvien che ’l debil filo alcun recida,
Deh, tronchi un colpo insieme,
Ch’io ’l bramo e ’l chiedo, al viver mio lo stame
E l’amoroso mio duro legame.