Gabriele D'Annunzio
Melitta
FULGE, dai maculosi leopardi
vigilata, una rupe bianca e sola
onde il miele silentemente cola
quasi fontana pingue che s’attardi.
 
Quivi in segreto sono i miei lavacri
dove il mio corpo ignudo s’insapora
e di rosarii e di pomarii odora
e si colora come i marmi sacri.
 
Io son flava, dal pollice del piede
alla cervice. Inganno l’ape artefice.
Porto negli occhi miei le arene lidie.
 
Per entro i variati ori la lieve
anima mia sta come un fiore semplice.
Melitta è il nome della mia flavizie.
 
L’acerba
NON io del grasso fiale mi nutrico.
Lascio la cera e il miele nel lor bugno.
Ma spicco la susina afra dal prugno
semiano, e mi piace l’orichico.
 
E il latte agresto piacemi del fico
primaticcio che nérica nel giugno.
Ti do due labbra fresche per un pugno
di verdi fave, e il picciol cuore amico!
 
Vieni, monta pè rami. Eccoti il braccio.
Odoro come il cedro bergamotto
se tu mi strizzi un poco la cintura.
 
Quanto soffii! Tropp’alto? Non ti piaccio?
Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto
che disse all’uva: Tu non sei matura.
 
 
Nico
ITUOI piè bianchi sono i miei trastulli
nella gracile sabbia ove t’accosci,
bianchi e piccoli come gli aliossi
levigati dal gioco dei fanciulli.
 
—Ahi, ahi, misera Nico, i miei piè brulli!
Su la sabbia di foco i piè mi cossi.
Tu ridi costassù, tu ridi a scrosci!
Ma, s’io ti giungo, vedi come frulli.
 
—Ingrata, ingrata, con che arte il foco
ti rilieva le vene in pelle in pelle
e il pollice t’imporpora e il tallone!
 
—Bada. Non aliossi pel tuo gioco
ma ho in serbo per te, schiavo ribelle,
una sferza di cuoio paflagone.
 
Nicarete
GLAUCO di Serchio, m’odi. Io, Nicarete
le canne con le lenze e gli ami sgombri
che non preser già mai barbi nè scombri
t’appendo alla tua candida parete.
 
E t’appendo le nasse anco, e la rete
fallace con suoi sugheri e suoi piombi
 
che non pescò già mai mulli nè rombi
ma qualche fuco e l’alghe consuete.
 
Amaro e avaro è il sale. O Glauco, m’odi.
Prendimi teco. Evvi una bocca, parmi,
sinuosa nell’ombra de’ miei bùccoli.
 
Teco andare vorrei tra lenti biodi
e coglier teco per incoronarmi
l’ibisco che fiorisce a Massaciùccoli
 
A nicarete
NICARETE, dal monte di Quiesa
a Montramito i colli sono lenti
come i tuoi biodi, all’aria obbedienti,
fatti anch’elli d’un oro che non pesa.
 
E quella lor soavità, sospesa
tra i chiari cieli e l’acque trasparenti,
tu non la vedi quasi ma la senti
come una gioia che non si palesa.
 
Sorge, splendore del silenzio, il disco
lunare. O Nicarete, ecco, e s’adempie
mentre nel lago la ninfea si chiude.
Prima è rosato come il fior d’ibisco
che t’inghirlanda le tue dolci tempie
ma dopo assempra le tue spalle ignude.
 
Gorgo
OSPITE sempre memore, io son Gorgo
e l’odor delle Cicladi vien meco.
Tutte l’uve e le spezie, ecco, ti reco
in questo lino aereo d’Amorgo.
 
Glauco, e ti reco il vin di Chio nell’otro,
quel che bevesti un dì sul tuo fasèlo,
quel che in argilla si facea di gelo
pendula a soffio di ponente o d’ostro.
 
E una corona d’ellera e di gàttice
ti reco, per un’ode che mi piacque
di te, che canta l’isola di Progne.
 
Io voglio, nuda nell’odor del màstice,
danzar per te sul limite dell’acque
l’ode fiumale al suon delle sampogne.
 
A gorgo
GORGO, più nuda sei nel lin seguace.
La tua veste ti segue e non ti chiude.
Fra l’ombelico e il depilato pube
il ventre appare quasi onda che nasce.
 
Ombra non è su le tue membra caste:
dall’ìnguine all’ascella albeggi immune.
Polita come il ciòttolo del fiume
sei, snella come l’ode che ti piacque.
 
Danzami la tua molle danza ionia
mentre che l’Apuana Alpe s’inostra
e il Mar Tirreno palpita e corusca.
 
L’Ellade sta fra Luni e Populonia!
E il cor mi gode come se tu m’offra
il vin tuo greco in una tazza etrusca.
 
L’auletride
IO rinvenni la pelle dell’incauto
Frigio nomato Marsia appesa a un pino,
sul suol roggio il coltello del divino
castigatore e, presso, il doppio flauto.
 
Questo raccolsi trepidando, o Glauco.
E, immemore del flebile destino,
 
io son osa talor nel mio giardino
chiuso carmi dedurre sotto il lauro.
 
Rivolgomi sovente e guardo s’Egli
non apparisca a un tratto, l’Immortale.
Ma non mi trema il mio labbro fasciato.
 
Vivon nell’orror sacro i miei capegli
ma per l’angustia del mio petto sale
il superbo di Marsia antico afflato.
 
Baccha
OH, chi mi chiama? Ah, chi m’afferra? Un tirso
io sono, un tirso crinito di fronda,
squassato da una forza furibonda.
Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo.
 
Trascinami alla nube o nell’abisso!
Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta.
Centauro, son la tua cavalla bionda.
Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco.
 
Tritone, son la tua femmina azzurra:
salsa com’alga è la mia lingua; entrambe
le gambe squamma sonora mi serra.
Chi mi chiama? La bùccina notturna?
il nitrito del Tessalo? il tonante
Pan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m’afferra?
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