Michelangelo Buonarroti

Com’io ebbi la vostra, signor mio

Com’io ebbi la vostra, signor mio,
cercand’andai fra tutti e’ cardinali
e diss’a tre da vostra part’ addio.
 Al Medico maggior de’ nostri mali
mostrai la detta, onde ne rise tanto
che ’l naso fe’ dua parti dell’occhiali.
 Il servito da voi pregiat’ e santo
costà e qua, sì come voi scrivete,
n’ebbe piacer, che ne ris’altro tanto.
 A quel che tien le cose più secrete
del Medico minor non l’ho ancor visto;
farebbes’anche a lui, se fusse prete.
 Ècci molt’altri che rinegon Cristo
che voi non siate qua; né dà lor noia
ché chi non crede si tien manco tristo.
 Di voi a tutti caverò la foia
di questa vostra; e chi non si contenta
affogar possa per le man del boia.
 La Carne che nel sal si purg’ e stenta
che saria buon per carbonat’ ancora
di voi più che di sé par si rammenta.
 Il nostro Buonarroto, che v’adora,
visto la vostra, se ben veggio, parmi
c’al ciel si lievi mille volte ogn’ora;
 e dice che la vita de’ sua marmi
non basta a far il vostro nom’eterno,
come lui fanno i divin vostri carmi.
 Ai qual non nuoce né state né verno,
dal temp’ esenti e da morte crudele,
che fama di virtù non ha in governo.
 E come vostro amico e mio fedele
disse:– Ai dipinti, visti i versi belli,
s’appiccon voti e s’accendon candele.
 Dunque i’ son pur nel numero di quelli,
da un goffo pittor senza valore
cavato a’ pennell’ e alberelli.
 Il Bernia ringraziate per mio amore,
che fra tanti lui sol conosc’ il vero
di me; ché chi mi stim’ è ’n grand’errore.
 Ma la sua disciplin’ el lum’ intero
mi può ben dar, e gran miracol fia,
a far un uom dipint’ un uom da vero. -
 Così mi disse; e io per cortesia
vel raccomando quanto so e posso,
che fia l’apportator di questa mia.
 Mentre la scrivo a vers’a verso, rosso
diveng’assai, pensando a cui la mando,
send’ il mio non professo, goffo e grosso.
 Pur nondimen così mi raccomando
anch’io a voi, e altro non accade;
d’ogni tempo son vostro e d’ogni quando
Ancor che ’l cor già mi premesse tanto,
per mie scampo credendo il gran dolore
n’uscissi con le lacrime e col pianto,
 fortuna al fonte di cotale umore
le radice e le vene ingrassa e ’mpingua
per morte, e non per pena o duol minore,
 col tuo partire; onde convien destingua
dal figlio prima e tu morto dipoi,
del quale or parlo, pianto, penna e lingua.
 L’un m’era frate, e tu padre di noi;
l’amore a quello, a te l’obrigo strigne:
non so qual pena più mi stringa o nòi.
 La memoria ’l fratel pur mi dipigne,
e te sculpisce vivo in mezzo il core,
che ’l core e ’l volto più m’affligge e tigne.
 Pur mi quieta che il debito, c’all’ore
pagò ’l mio frate acerbo, e tu maturo;
ché manco duole altrui chi vecchio muore.
 Tanto all’increscitor men aspro e duro
esser dié ’l caso quant’è più necesse,
là dove ’l ver dal senso è più sicuro.
 Ma chi è quel che morto non piangesse
suo caro padre, c’ha veder non mai
quel che vedea infinite volte o spesse?

#ScrittoriItaliani (XVI Rime secolo)

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