Guido Gozzano

In casa del sopravissuto

I.
Dalle profondità dei cieli tetri
scende la bella neve sonnolenta,
tutte le cose ammanta come spetri;
Scende, risale, impetuosa, lenta,
di su, di giù, di qua, di là, s’avventa
alle finestre, tamburella i vetri...
 
Turbina densa in fiocchi di bambagia,
imbianca i tetti ed i selciati lordi,
piomba dai rami curvi, in blocchi sordi...
Nel caminetto crepita la bragia
e l’anima del reduce s’adagia
nella bianca tristezza dei ricordi.
 
Reduce dall’Amore e dalla Morte
gli hanno mentito le due cose belle!
Gli hanno mentito le due cose belle:
Amore non lo volle in sua coorte,
Morte l’illuse fino alle sue porte,
ma ne respinse l’anima ribelle.
 
In braccio ha la compagna: Makakita;
e Makakita trema freddolosa,
stringe il poeta e guarda quella cosa
di là dai vetri, guarda sbigottita
quella cosa monotona infinita
che tutto avvolge di bianchezza ondosa.
 
Forse essa pensa i boschi dove nacque,
i tamarindi, i cocchi ed i banani,
il fiume e le sorelle quadrumani,
e il gioco favorito che le piacque,
quando in catena pendula sull’acque
stuzzicava le nari dei caimani.
 
Con la Mamma vicina e il cuore in pace,
s’aggira, canticchiando un melodramma;
sospira un po’... Ravviva dalla brace
il guizzo allegro della buona fiamma...
Canticchia. E tace con la cara Mamma;
la cara Mamma sa quel che si tace.
 
Egli s’aggira. Toglie di sul piano–
forte un ritratto: “Quest’effigie!... Mia?...”
E fissa a lungo la fotografia
di quel se stesso già così lontano:
“Sì, mi ricordo... Frivolo... mondano...
vent’anni appena... Che malinconia!...
 
Mah! Come l’io trascorso è buffo e pazzo!
Mah!..."– “Che sospiri amari! Che rammenti?”
“Penso, mammina, che avrò tosto venti–
cinqu’anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo
coi versi! È tempo d’essere il ragazzo
più serio, che vagheggiano i parenti.
 
Dilegua il sogno d’arte che m’accese;
risano a poco a poco anche di questo!
Lungi dai letterati che detesto,
tra saggie cure e temperate spese,
sia la mia vita piccola e borghese:
c’è in me la stoffa del borghese onesto...”
 
Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano–
forte il ritratto “Quest’effigie! Mia?...”
E fissa a lungo la fotografia
di quel se stesso già così lontano.
“Un po’ malato... frivolo... mondano...
Sì, mi ricordo... Che malinconia!...”
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