(o così credo)
Ho sempre amato scrivere, parlare, cantare in modo stonato, e leggere, discutere di politica. Essere inghiottita da un mondo umanistico, escludendo tutto ciò che è puramente logico. Essenzialmente logico, dannatamente disumano. Non scrivo per i soldi. I soldi li posso fare in altri modi. No, la scrittura esclude la possibilità di soldi. Per questo mi è stata sconsigliata, minacciata di non trovare un posto del mondo quando quel posto l’avrei potuto creare con le mie stesse mani. Ma io voglio trovare la mia voce. Spesso il verbo “volere” viene sconsigliato: troppo forte, troppo autoritario, fin troppo autentico per uscire dalla bocca di un giovane qualsiasi. Eppure, siamo noi giovani a volere più ardentemente, più vividamente di tutti quanti. Che parole del cazzo, dette da una bocca che nemmeno sa che cosa significa la vita. Ma perché aspettare di sapere che cos’è la vita per crearla? Devo davvero aspettare di morire per vivere? Devo sperare di arrivare ad un momento di pura insoddisfazione per riscuotere me stessa? E per cosa, per sentirmi dire che tutto ciò che voglio fare è insulso, che il modo sta cambiando. Io me ne sbatto che il mondo stia cambiando. Me ne sbatto che io non vada più di moda, che il mio pensiero non sia d’accordo col resto della popolazione. Fossi l’unica al mondo ad urlare, mi spaccherei le corde vocali a farlo. Perché voglio avere una voce in questo mondo, e la voglio scrivere, la voglio dire; la voglio parlata, smembrata, odiata, amata, disconosciuta. Perché gli altri sì ed io? Che c’è, credete non abbia abbastanza talento? Ma cos’è il talento: un dono innato o una passione assassina?
“Smettila di tenere la testa sui libri, ti ucciderai così”, Marco scorgeva il viso stanco di Anna nel riflesso della finestra del soggiorno. Osservava le spalle della ragazza, così rigide che per un secondo si chiese se quello che si trovava davanti a lui non fosse un cadavere. Dall’altro lato non ebbe risposta. Fu silenzio nella stanza, colmato dal sottile jazz che proveniva dal giradischi. “Anna?”, chiese.
“Vai a farti fottere, Marco”.
Perché Marco avrebbe dovuto andare a farsi fottere? Forse perché ammazzarsi per l’arte, qualsiasi essa sia, è più importante che provare a sé stessi che ci si può fermare un attimo a rilassarsi? Credete che anche Anna e Marco e la loro unione eterna dai tempi di Lucio Dalla sarebbero ceduti alla pressione che Anna provava all’idea di fare arte? Se Anna voleva morire e Marco voleva andarsene lontano, prima sarebbero andati lontani: si sarebbero trasferiti in una grande città, abbandonando quel becero paesino per provare l’ebrezza dello smog e delle manifestazioni. E nella grande città Anna sarebbe soffocata, ma sarebbe rinata. Poi morta, poi rinata, e ancora morta, e ancora rinata finché non si fosse sentita così lontana da sé stessa che quella lontananza le sarebbe stata casa. A casa, lei sarebbe rimasta chiusa lì, perché? Perché la lontananza che voleva Marco non era la morte che voleva lei. E allora l’arte, e allora la scrittura, perché tutto ciò inganna, tutto ciò ci fa sentire lontani dalla figura scomoda che siamo noi stessi molto spesso.
E allora?
“Vai a farti fottere, Marco”.