Ardi.
GLAUCO, Glauco, ove sei? Più non ti veggo.
Ho perduto il sentiere, e il mio cavallo
s’arresta. I pini, i pini d’ogni parte
mi serrano. Agrio affonda nella massa
degli aghi, come nella sabbia, fino
ai garetti. Ove sei, Glauco? Mi vedi?
Ho le gambe che sanguinano. Folli
fummo entrando nel bosco ignudi come
nel mare. I rovi, le schegge, le scaglie
feriscono, e i ginepri aspri. Non sanguini
anche tu? Oh profumo! Sale a un tratto
come una vampa. Il vino dell’Estate!
N’ho bevuto una piena coppa, e un’altra
ne bevo, e un’altra anche più calda, e un’altra
bollente che mi brucia il cuore e fino
alla gola mi sazia, fino agli occhi.
O Glauco, Glauco, il vino dell’Estate
misto di oro di rèsina e di miele!
Glauco.
Io ti veggo, ti veggo, Ardi. Sei bello
sul tuo cavallo bianco. Tu non puoi
portar clamide, come i cavalieri
d’Atene, ma ti giova essere ignudo.
Su, spingi Agrio! Non v’è sentiere. I fusti
sono fragili come aride canne.
Odi? Folo le rompe col suo petto.
Dunque or teme le scaglie e i rovi il marmo
delle tue gambe? E’ splendido il tuo sangue,
Ardi. Poiché ciascuna cosa in torno
le più ricche virtudi e più segrete
esprime per farti ebro, non ti dolga
di sanguinare come il pino stilla,
come il ginepro odora. Avanti, avanti
per la boscaglia che rosseggia e cede!
Vedesti mai più fulva chioma e spessa?
I bei sogni vi restano come api
prese nella criniera d’un leone.
Ardi.
Preso per i capegli sono. Ah, il ramo
si rompe e gli aghi piovonmi sul collo,
su gli omeri, già coprono la groppa
d’Agrio. Vedi? A miriadi, a miriadi!
Carichi tutti i rami biforcuti.
In ogni congiuntura accumulati
a fasci gli aghi morti. Morta sembra
tutta la selva, inaridita e cieca.
Rompesi come vetro. Il verde è al sommo,
invisibile, e fa prigioni i raggi
nell’intrico; ma l’ombra sua mi cuoce
la fronte e mi dissecca la narice.
Entreremo nel fiume coi cavalli!
Diguazzeremo in mezzo alla corrente!
E ancor lontano il Serchio? Tutta l’ombra
respira aridità. L’acqua è lontana.
E sento che lo zòccolo a traverso
gli aghi morti non trova se non sabbia
torrida. I coni vacui son neri
come carboni spenti, come tizzi
consunti. O Glauco, dove mi conduci?
Glauco.
Chiudi gli occhi. Odi il vento? Navigare
ti sembra, veleggiar per il deserto
mare. Odi il vento tra le sàrtie? Odi
il gemito degli alberi allo sforzo
delle vele? Si naviga per acque
infide verso l’isola di Circe.
Negli orciuoli d’argilla non rimane
goccia di fonte. Beveremo il sale.
Apri gli occhi! Ecco l’atrio della maga
tutto riscintillante di prodigi.
Larve di stelle adornano la reggia
della donna solare, vedi?, simili
a foglie macerate dagli autunni
che serban lor sottili nervature
con la tenuità dei bissi intesti
d’aria e di lume. Fili palpitanti
le congiungono, l’iride le cangia,
indicibile tremito le muove.
Circe incantò le stelle eccelse, e l’ebbe,
e le votò di lor sostanza ignìta;
e qui raduna le lor dolci larve.
Ardi.
Opre di ragni, arte divina, tele
stellari! O Glauco, io n’ho già lacerata
una col viso, e un’altra ancóra. Guarda!
Per ovunque tessute son le stelle.
Siam presi in una rete innumerevole.
Férmati! Non distruggere l’incanto.
Glauco.
La radura è vicina. Il sole pènetra
fra i rami. Tutto tremola e scintilla.
La rèsina sul tronco è come l’ambra.
Di polito metallo è il mirto chiuso.
La tamerice sembra quasi azzurra
tra i rossi pini. E il tuo volto s’imperla.
Ardi.
Oh com’è bello Folo che dall’ombra
trapassa, maculato di sudore,
nella banda del sole! Anche tu sànguini.
Non vedesti le vipere fuggire?
Qual nome hanno quei lunghi fili d’erba
che portano una spiga nera in cima?
Glauco.
Il nome che le labbra ti diletta.
Abbandona le redini sul collo
d’Agrio. Ascolta il cavallo nel silenzio
sbuffare. Vola la sua bava e imbianca
il mentastro. Perché, Ardi, sol questo
empie il mio petto di felicità?
Ardi.
Forse già fummo i figli della Nuvola.
Già l’erba calpestammo con gli zòccoli,
cogliemmo il fiore con le dita umane.
Un dì, volgendo indietro il torso ignudo,
con la concava scorza detergemmo
dal pelo della groppa calorosa
il sudore che in rivoli colava.
Lo spazio immenso era la nostra ebrezza.
Senz’ansia il nostro fianco infaticato
vinse in numero i palpiti del vento.
Tanto di terra in un sol dì varcammo
quanto varcava Pègaso di cielo.
Glauco.
Rapidità, Rapidità, gioiosa
vittoria sopra il triste peso, aerea
febbre, sete di vento e di splendore,
moltiplicato spirito nell’òssea
mole, Rapidità, la prima nata
dall’arco teso che si chiama Vita!
Vivere noi vogliamo, Ardi, correndo:
passare tutti i fiumi, discoprirli
dalle fonti alle foci, lungo i lidi
marini l’orma imprimere nel segno
sinuoso, nell’argentina traccia
che di sé lascia il flutto più recente.
Ardi.
Dato ci fosse correre senz’ansia
l’Universo! Ma troppo il nostro petto
è angusto pel respiro della nostra
anima. O Glauco, a chi t’ascolta, sei
come l’estro implacabile che incìta
i tori. E l’orizzonte è come anello
vitreo che tu spezzi per disdegno.
Glauco.
Taci, Beviamo il vino dell’Estate,
sol dediti all’amore del bel fiume.
Verso tutte le selve della Terra
sospiro; ma, se in una solitario
vivere dovessi, in questa, Ardi, vorrei
vivere, in questa calda selva australe,
in quest’aridità d’ombre estuose.
Ardi.
E’ come un rogo pronto a conflagrare.
La potenza del fuoco in lei si chiude.
Soavemente mormora nell’aura,
ma la sua voce vera in lei si tace.
Parlerà con le lingue dell’incendio
quando la nube nata dal Tirreno
le scaglierà la folgore notturna.
Glauco.
Il respiro non passa per le fauci
ma per tutte le membra, fino al pollice
del piede scalzo; e passano gli aromi
per tutti i pori. E sento respirare
il mio cavallo, e sento la ferina
sua allegrezza, come se nel duplice
corpo fervesse l’unico mio cuore.
Ardi.
Ecco l’erba, ecco il verde, ecco una canna.
Ecco un sentiere erboso. Guarda, al fondo,
guarda i monti Pisani corrucciati
sotto le vaste nuvole di nembo.
Glauco.
Ardi, non odi gracidìo di corvi
là verso il mare? Scendono alla foce
del Serchio a branchi, e tesa v’è la rete,
dissemi il cacciatore di Vecchiano.
Ardi.
Il Serchio è presso? Volgiti all’indizio.
Ecco la sabbia tra i ginepri rari,
vergine d’orme come nei deserti.
Si nasconde la foce intra i canneti?
La scopriremo forse all’improvviso?
Ci parrà bella? No, non t’affrettare!
Lascia il cavallo al passo. È dolce l’ansia,
e viene a noi dal più remoto oblio,
vien dall’antica santità dell’acque.
Liberi siamo nella selva, ignudi
su i corsieri pieghevoli, in attesa
che il dio ci sveli una bellezza eterna.
Non t’affrettare, poi che il cuore è colmo.
Glauco.
Bocche delle fiumane venerande!
Lungo le pietre d’Ostia è più divino
il Tevere. Soave è nei miei modi
l’Arno. Il natale Aterno, imporporato
di vele, splende come sangue ostile.
E l’Erìdano vidi, e l’Achelòo,
e il gran Delta, e le foci senza nome
ove attardarsi volle invano il sogno
del pellegrino. Ma che questa, o Ardi,
sia la più bella mi conceda il dio;
perché non mai fu tanto armonioso
il mio petto, nè mai tanto fu degno
di rispecchiare una bellezza eterna.
Ardi.
Oh, mistero! La verde chiostra accoglie
i vóti, qual vestibolo di tempio
silvano. I pini alzan colonne d’ombra
intorno al sacro stagno liminare
che ha per suo letto un prato di smeraldi.
Nel silenzio l’imagine del cielo
si profonda: non ride nè sorride,
ma dal profondo intentamente guarda.
Glauco.
Odi la melodia del Mar Tirreno?
Tra le voci dei più lontani mari,
nell’estrema vecchiezza, nell’orrore
del gelo, il sangue mio l’imiterà.
E la cerula e fulva Estate sempre
io m’avrò nel mio cuore. Odi sommesso
carme che ci accompagna per l’esiguo
istmo sembiante al giogo d’una lira.
Ardi.
Tutto è divina musica e strumento
docile all’infinito soffio. Guarda
per la sabbia le rotte canne, guarda
le radici divelte, ancor frementi
di labbra curve e di leggiere dita!
I musici fuggevoli con elle
modulavano il carme fluviale.
Glauco.
Scendi dal tuo cavallo, Ardi. Ecco il fiume,
ecco il nato dei monti. Oh meraviglia!
Ei porta in bocca l’adunata sabbia
fatta come la foglia dell’alloro.
T’offriamo questi giovini cavalli,
o Serchio, anche t’offriamo i nostri corpi
ov’è chiuso il calor meridiano.
Ardi.
Anelammo d’amore per trovarti!
Sgorgar parea che tu dovessi, o fiume,
dal nostro petto come un sùbito inno.
Glauco.
Dio tu sei, dio tu sei; noi siam mortali.
Ma fenderemo la tua forza pura.
La più gran gioia è sempre all’altra riva.