Giosuè Carducci

Carnevale

(Voce dai palazzi) E tu se d’echeggianti
Valli o borea, dal grembo, o errando in selva
Di pin canora, o stretto in chiostri orrendi,
Voce d`umani pianti
E sibilo di tibie e de la belva
Ferita il rugghio in mille suoni rendi,
Borea mi piaci. E te, solingo verno,
Là su quell’alpe volentieri io scerno.
Una caligin bianca
Empie l’aer dorrnente, e si confonde
Co 'l pìan nevato a l’orizzonte estremo.
Tenue rosseggia e stanca
Del sol la ruota. e tra i vapor s’asconde,
Com’ occhio uman di sue palpèbre scemo.
E non augel, non aura in tra le piante,
Non canto di fanciulla o viandante;
Ma il cigolar de’ rami
Sotto il peso ineguale affaticati
E del gel che si fende il suono arguto.
Canti Arcadia le richiami
Zefiro e sua dolce famiglia a i prati
Me questo di natura altiero e muto
Orror più giova. Deh risveglia, Eurilla,
Nel sopito carbon lieta favilla;
Ed in me la serena
Faccia converti e 'l lampeggiar del riso
Che primavera ove si volga adduce.
A la sonante scena
Poi ne attendono i palchi, ove dal viso
De le accolte bellezze ardore e luce
E da le chiome e da gl’inserti fiori
Spira l’april che rinnovella odori.
(Voce dai tuguri ) Oh se co 'l vivo sangue
Del mio cor ristorare io vi potessi,
Gelide membra del figliuolo mie!
Ma inerte il cor mi langue,
E irrigiditi cadono gli amplessi,
E sordo l’uomo ed è tropp’alto Iddio.
O poverello mio, la lacrimosa
Gota a la gota di tua madre posa.
Non de la madre al seno
Il tuo fratel posò: lenta, su 'l varco
Presse gli estremi aliti suoi la neve.
Da l’opra dura, pieno
Il dì, seguiva sotto iniquo carco
I crudeli signor co 'l passo breve;
E co’ l’uom congiurava a fargli guerra
L’aere implacato e la difficil terra.
Il nevischio battea
Per i laceri panni il faticoso;
E cadde, e sanguinando in van risorse.
La fame ahi gli emungea
L’ultime forze, e al fin su 'l doloroso
Passo lo vinse; e pia la morte accorse:
Poi cadavero informe e dissepolto
Lo ritornar sotto il materno volto.
Ahimè, con miglior legge
Ripara a schermo da la gelid’aura
Aquila in rupe e belva antica in lustre,
Ed un covil protegge
Tepido i sonni ed il vigor restaura
A i can satolli entro il palagio illustre
Qui presso, dove de l’amor più forte,
Figlio de l’uom, te mena il gelo a morte.
(Voce dalle sale) Mescete, or via mescete
La vendemmia che il Ren vecchia conserva
Di sue cento castella incoronato.
Gorgogli con le liete
Spume a lo sguardo e giù nel sen ci ferva
Quel che il sol ne’ tuoi colli ha maturato
Cui ben Giovanna a l’Anglo un dì contese,
di vini e d’eroi Francia cortese.
Poi ne rapisca in giro
La turbinosa danza. Oh di pompose
E bionde e nere chiome ondeggiamenti,
Oh infocato respiro
Che al tuo si mesce, oh disvelate rose,
Oh accorti a fulminare occhi fuggenti;
Mentre per mille suoni a tempra insieme
L’acuta voluttà sospira e geme!
Dolce sfiorar co ‘l labro
Le accese guance, e stringer mano a mano
E del seno su ’l sen le vive nevi,
E di sua sorte fabro
Ne l’orecchio deporre il caro arcano
De le sorrise parolette brevi,
E meditar cingendo il fianco a lei
De l’espugnata forma indi i trofei.
Che se di nostre feste
Scorra su l’util plebe il beneficio
E civil carità prenda augumento;
Mercé nostra, il celeste,
Che bene e mal partì, saldo giudicio
Ha di bella pietade alleggiamento.
Noi, del nostro gioir, beata prole,
Rallegriam l’universo a par del sole.
(Voce dalle soffitte) Mancava il pan, mancava
L’opra sottile a reggere la vita;
E al freddo focolar sedea tremando,
E muta mi guardava,
Pallida mi guardava e sbigottita,
La madre: e un lungo giorno iva passando
Che perseguiami quel silenzio e 'l guardo,
Quand’io lassa discesi a passo tardo.
Piovea per la brumale
Nebbia lividi raggi alta la luna
In su 'l trivio lfangoso, e dispariva
Dietro le nubi: tale
Di giovinezza il lume in su la bruna
Mia vita mesto fra i dolor fuggiva.
E la man tesi: e vidimi in conspetto
Osceni ghigni; e in cor mi scese un detto
Immane. Ahi, ma più immane
Me, o superbi, premea la lunga fame
E il guardo e il viso de la madre antica.
Tornai: recai del pane:
Ma tacean del digiuno in me le brame,
Ma sollevare i gravi occhi a fatica
Sostenni; o madre, e nel tuo sen la fronte
Ascosi e del segreto animo l’onte.
Addio, d’un santo amore
Fantasie lacrimate, e voi compagne
Di questa infelicissima fanciulla!
A voi rida il candore
Del vel che la pia madre adorna e piagne,
E 'l pensier ch’erra la studio d’una culla.
Io derelitta io scompagnata seguo
Pur la traccia de l’ombre e mi dileguo.
(Voce di sotterra) Taci, o fanciulla mesta;
Taci, o dolente madre, e l’affamato
Pargol raccheta ne la notte bruna.
Fiammeggia, ecco, la festa
Da’ vetri del palagio, ove il beato
De la libera patria ordin s’aduna,
E magistrati e militi tra’ suoni
E dotti ed usurier mesce e baroni.
De’ tuoi begli anni il fiore,
O fanciulla, intristì, chiedendo in vano
L’aer e l’amor ch’ogni animal desia;
Ma ride in quel bagliore
Di sete e d’òr, che con la bianca mano
La marchesa raccoglie e va giulìa
In danza. Or pianga e aspetti pur, che importa?,
La prostituzione a la tua porta.
Quel che ne la pupilla
Del figliuol tuo gelò supremo pianto
Che tu non rasciugasti, o madre trista,
Gemma s’è fatto e brilla
Tra 'l nero crin de la banchiera. E intanto
Il leggiadro e soave economista
A lei che ride con la rosea bocca
Sentenze e baci dissertando scocca.
Gioite, trionfate,
O felici, o potenti, o larve! E quando
Il sol nuovo la plebe a l’opre caccia,
Uscite e dispiegate,
Pur la mal digerita orgia ruttando
Le vostre pompe a’ suoi digiuni in faccia;
E non sognate il dì ch’a l’auree porte
Batta la fame in compagnia di morte.
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