Ada Negri

Io

 
Sotto altri cieli io vissi, in altra forma,
con altro cuore. Fiammule e baleni
d’allora, erranti lucciole tra’ fieni,
risfavillano in me, s’io vegli o dorma.
 
Io so chi fui, nel tempo già travolto
in vorticoso baratro d’oblìo.
Di vertigin barcollo, se nel mio
vivo mister le antiche anime ascolto
 
destarsi in onde d’energia, frammiste
a strappi di ricordi.—Non si muore.—
Chi nacque un giorno, in gioja ed in dolore
per mille aspetti immortalmente esiste.
*
 
Compagna fui di minatori: moglie,
figlia, sorella: impuro il corpo, impura
l’anima: chiusa nella gabbia oscura,
calai ne’ pozzi con virili spoglie.
 
Rauco il respir, sudato il collo, ansanti
d’ardua fatica, a mezzo il corpo ignudi,
all’ombra delle vôlte ìnfere, i rudi
uomini miei m’apparvero giganti.
 
Giocai con essi a sfida e a rimpiattino
colla Morte, tra i fumi del grisou.
E qualcuno di noi non tornò più
nel sole. Io sì, tornai, pel mio destino.
 
In una sporca alba fangosa, «Muori,
muori, muori!...» gridai, fra un’accozzaglia
di disperati, pronti alla battaglia
rossa, verso le case dei signori.
 
Ero una furia, coi capelli a serpi,
colle fiamme negli occhi, con le labbia
sfigurate dagli urli. Ebbra di rabbia
i sassi disselciai, svelsi gli sterpi,
 
maledissi, colpìi, caddi, travolta
venni sotto lo scalpito irrompente
dei cavalli. E passò sulle mie spente
membra il sinistro orror della rivolta.
*
 
Ebbi un piccolo viso di sognante
bambina, bronzeo sotto il nero casco
dei ricci. Modulai nel gergo basco
le canzoni del vento e delle piante.
 
Due stracci in croce mi facevan bella;
il mio fiato sapea di fior silvano;
per un soldo, nel palmo della mano,
lessi la buona e la mala novella.
 
Lavai, cantando, i panni alle sorgenti
boschive, e fui Nausicaa gioconda
che mentre lava specchiasi nell’onda,
sorridendo a’ suoi glauchi occhi lucenti.
 
Libera principessa della tenda
gitana, a notte noverai nei cieli
gli astri, e composi con ben scelti steli
magici beveraggi di leggenda.
 
Nell’albe fresche, fra l’aulir dell’erba
nuova, ornai le mie trecce di monete
tìnnule—e v’era chi languìa per sete
della mia bocca:—io l’irridevo, acerba....
 
Ma venne un giorno chi mi fece muta
sotto il suo bacio.—Più non so chi fosse.—
Rivedo, a lampi, quelle labbra rosse
fra la turba che passa e che saluta.
*
 
I brividi dell’odio e dell’amore
finsi per mille pubblici, su palchi
di legno: ed ogni folla che s’accalchi
suscita in me l’alto ricordo in cuore.
 
Flessi a ogni gioco la mia grazia varia,
vita morte follia da me fu espressa:
Cordelia pia, Desdemona sommessa,
Lady Macbeth sinistra e sanguinaria.
 
La mia bocca mutevole in un’ora
ebbe note di gioja e d’innocenza,
e lo stupor del sonno e la scïenza
del male, e l’urlo tragico che implora.
 
A me ogni sera rinnovò l’incanto
d’esser diversa, di scordare il mio
sogno per altri sogni, il pianto mio
per l’aspra voluttà d’un altro pianto.
 
E fu la folla come un solo cuore
ch’io mi potessi stringere fra dita
d’acciajo: fu come una sola vita
viva di me, fervente in muto ardore
 
sotto il mio sguardo.—Ed io, dall’alta scena,
non ebbi nervo che non si spezzasse,
non ebbi vena che non si vuotasse
per il tumulto di sua gioja piena.—
*
 
Nelle barbare età cinsi il soggòlo
bianco, la scura tonaca e il cilicio.
Di mia pura bellezza il sacrificio
dolce mi parve, per amor d’un Solo.
 
Tenendo sul mio capo alta la croce
passai fra genti ammutinate, a Cristo
orando: e sangue con velen frammisto
sino al mio petto zampillò, feroce.
 
Fra saccheggio e fetor di pestilenza
incolume passai, d’infermi in traccia;
e più d’uno spirò fra le mie braccia,
da me bevendo una celeste essenza.
 
L’acqua col cavo della mano offersi
a bocche nello spasimo contorte.
Bella più de la Vita a me fu Morte.
Amai, baciai le piaghe che detersi.
 
Quando il furor de le battaglie spento
pareva, chiusa in mia ferrigna tonaca
più nei tugurî del dolor fui monaca,
che ne la cella del mio pio convento.
 
A papi e re proffersi con serena
favella i detti della verità.
E mi consunsi in fede ed in pietà
come la Mantellata di Siena.
*
 
Chi ora io sono, è cosa vana il dire:
fragile donna che se stessa ascolta
vivere, con un’ansia avida e stolta
di saper ciò ch’è in fondo al suo soffrire.
 
D’antiche vite istinti e forze varie
si raggruppano in me, s’urtano a gara:
aspra t’incidi sulla bocca amara,
o ambigua lotta d’anime contrarie!...
 
Ho cent’anni, ho mille anni. La mia vera
faccia, il mio vero cuore io non li so.
Nè, stanca a morte, io mai conoscerò
l’ebbrezza di poter morire intera.

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