In the morning, Alpes Maritimes from Antibes, by John Peter Russell
Gabriele D'Annunzio

Il Gombo

L’IMMENSITÀ del duolo,
del lutto immedicabile senza
fine, terrestre fatta
qual Niobe nell’umida rupe,
quivi abitare sembra
nel lito deserto, nell’alpe
ardua, nella selva
che piange il suo pianto aromale.
 
Tutto è quivi alto e puro
e funebre come le plaghe
ove duran nel Tempo
i grandi castighi che inflisse
il rigor degli iddii
agli uomini obliosi del sacro
limite imposto all’ansia
del lor desiderio immortale.
 
 
Tre disse quivi immense
parole il Mistero del Mondo,
pel Mare pel Lito per l’Alpe,
visibile enigma divino
che inebria di spavento
e d’estasi l’anima umana
cui travagliano il peso
del corpo e lo sforzo dell’ale.
 
Poi che non val la possa
della Vita a comprendere tanta
bellezza, ecco la Morte
che braccia più vaste possiede
e silenzii più intenti
e rapidità più sicura;
ecco la Morte, e l’Arte
che è la sua sorella eternale:
 
quella che anco rapisce
la Vita e la toglie per sempre
all’inganno del Tempo
e nuda l’inalza tra l’Ombra
e la Luce, e le dona
col ritmo il novello respiro:
ecco la Morte e l’Arte
apparsemi nel cerchio fatale.
 
 
 
O Niobe, l’antico
tuo grido odo alzarsi repente
al conspetto del Mare,
e il tuo disperato dolore
chiamar le figlie e i figli
per l’inesorabile chiostra,
e stridere odo l’arco
forte e sibilare lo strale.
 
“Tera, Ftia, Cleodossa,
Astíoche, Pelòpia, Fedìmo!
Tu chiami; e i dolci nomi,
i nomi che furono il miele
della tua bocca, o Madre,
si frangon nell’ululo crudo
come pel mìssile oro
l’incolpevole fior filiale.
 
Procombono sul petto
sul fianco, procombono i corpi
floridi, i giovinetti
venusti, le vergini leni;
copron la sabbia amara,
mescono le chiome alle spume
non il sangue: incruenta
è la piaga dell’oro letale.
 
 
Procombono, stanno
ai tuoi piedi, o Madre demente!
Poi tutto è marmo, immota
bellezza, effigiato silenzio.
L’immensità del duolo
è fatta terrestre e marina.
Il Mare il Lito l’Alpe
sono il tuo simulacro ferale.
 
O Tantalide audace,
io veggo il tuo bellissimo volto
impietrato e il tuo pianto
nella solitudine esangue,
e il sacrilego orgoglio
che feceti chiedere altari
per la generatrice
virtù del tuo grembo mortale.
 
Tutto è quivi alto e puro
e funebre e ai cieli superbo,
memore dell’umane
grandezze e dei castighi divini.
Ed in nessuna plaga
con più guerra, ahi, l’anima audace
travagliarono il peso
del corpo e lo sforzo dell’ale.
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