The Second of May 1808, by Francisco de Goya
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Cesare Pavese Cesare Pavese

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950) è stato uno scrittore, poeta, traduttore e critico letterario italiano. Viene considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo. Biografia L’infanzia Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe sito nella provincia di Cuneo, presso il cascinale di San Sebastiano, dove la famiglia soleva trascorrere le estati, il 9 settembre del 1908. Il padre, Eugenio Pavese, originario anch’egli di Santo Stefano Belbo, era cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino, dove risiedeva con la moglie, Fiorentina Consolina Mesturini, proveniente da una famiglia di abbienti commercianti originari di Ticineto (in provincia di Alessandria), e la primogenita Maria (nata nel 1902), in un appartamento in via XX Settembre 79. Malgrado l’agiatezza economica, l’infanzia di Pavese non fu felice: una sorella e due fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. La madre, di salute cagionevole, dovette affidarlo, appena nato, a una balia del vicino paese di Montecucco e poi, quando lo riprese con sé a Torino, a un’altra balia, Vittoria Scaglione. Il padre morì di un cancro al cervello il 2 gennaio del 1914; Cesare aveva cinque anni. Come è stato scritto, «c’erano già tutti i motivi – familiari e affettivi – per far crescere precocemente il piccolo Cesare [...] per una preistoria umana e letteraria che avrebbe accompagnato e segnato la vita dello scrittore». La madre, di carattere autoritario, dovette allevare da sola i due figli: la sua educazione rigorosa contribuì ad accentuare il carattere già introverso e instabile di Cesare. Gli studi Nell’autunno dello stesso 1914, la sorella si ammalò di tifo e la famiglia dovette rimanere a Santo Stefano Belbo, dove Cesare frequentò la prima elementare; le altre quattro classi del ciclo le compì a Torino nell’istituto privato “Trombetta” di via Garibaldi. Come scrive Armanda Guiducci, «S. Stefano fu il luogo della sua memoria e immaginazione; il luogo reale della sua vita, per quarant’anni, fu Torino». Lungo lo stradone che da Santo Stefano Belbo porta a Canelli, nella bottega del falegname Scaglione, Cesare conobbe Pinolo, il più piccolo dei figli del falegname, che descriverà in alcune opere, soprattutto La luna e i falò (come Nuto) e a cui rimarrà sempre legato. Nel 1916 la madre, non riuscendo più a sostenere la gestione dei mezzadri e le spese, decise di vendere la cascina di San Sebastiano e andare a vivere con i figli in una villetta nella località collinare di Reaglie. A Torino Cesare frequentò le scuole medie presso l’Istituto Sociale dei gesuiti, poi si iscrisse al Liceo classico Cavour dove scelse il ginnasio con l’indirizzo moderno (Liceo moderno), che non prevedeva lo studio della lingua greca. Incominciò ad appassionarsi alla letteratura, in particolare ai romanzi di Guido da Verona e di Gabriele D’Annunzio. Con il compagno di studi Mario Sturani incominciò un’amicizia durata tutta la vita e prese a frequentare la Biblioteca Civica, scrivendo i primi versi. Nell’ottobre 1923 Pavese si iscrisse al liceo D’Azeglio e scoprì, in particolare, l’opera di Alfieri. Trascorse gli anni di liceo tra i primi amori adolescenziali e le amicizie, come quella con Tullio Pinelli, cui farà leggere per primo il dattiloscritto di Paesi tuoi e scriverà una lettera prima del suicidio. Cesare rimase a lungo a casa da scuola a causa di una pleurite che si era preso rimanendo a lungo sotto la pioggia per aspettare una cantante ballerina di varietà in un locale frequentato dagli studenti, della quale si era innamorato. Era il 1925 e frequentava la seconda liceo. L’anno seguente fu scosso profondamente dalla tragica morte di un suo compagno di classe, Elico Baraldi, che si era tolto la vita con un colpo di rivoltella. Pavese ebbe la tentazione di emulare quel gesto, come testimonia la poesia inviata il 9 gennaio 1927 all’amico Sturani. Il suo insegnante di italiano e latino fu l’antifascista Augusto Monti, che gli insegnò un metodo rigoroso di studio improntato all’estetica crociana frammista ad alcune concezioni di De Sanctis. Nel 1926, conseguita la maturità liceale, inviò alla rivista “Ricerca di poesia” alcune liriche, che furono però respinte. Si iscrisse intanto alla Facoltà di lettere dell’Università di Torino e continuò a scrivere e a studiare con grande fervore l’inglese, appassionandosi alla lettura di Sherwood Anderson, Sinclar Lewis e soprattutto Walt Whitman, mentre le sue amicizie si allargarono a coloro che diventeranno, in seguito, intellettuali antifascisti di spicco: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi. L’interesse per la letteratura americana divenne sempre più rilevante e così incominciò ad accumulare materiale per la sua tesi di laurea, mentre proseguivano i timidi amori permeati dalla sua visione angelicante della donna. Intanto si immergeva sempre più nella vita cittadina, e così scriveva all’amico Tullio Pinelli: Leggendo Babbit di Sinclair Lewis, Pavese volle capire a fondo lo slang. Incominciò così una fitta corrispondenza con un giovane musicista italoamericano, Antonio Chiuminatto, conosciuto qualche anno prima a Torino, che lo aiutò ad approfondire l’americano a lui più contemporaneo. Così scrisse al corrispondente d’oltreoceano: Negli anni successivi, proseguì gli studi con passione, scrisse versi e lesse molto, soprattutto autori americani come Hemingway, Lee Masters, Cummings, Lowell, e la Stein; incominciò a tradurre per l’editore Bemporad Our Mr. Wrenn di Sinclair Lewis e scrisse per Arrigo Cajumi, membro del comitato direttivo della rivista “La Cultura”, il suo primo saggio sull’autore di Babbitt, cominciando così la serie detta Americana. Nel 1930 presentò la sua tesi di laurea “Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman” ma Federico Oliviero, il professore con il quale doveva discuterla, la rifiutò all’ultimo momento perché troppo improntata all’estetica crociana e quindi scandalosamente liberale per l’età fascista. Intervenne però Leone Ginzburg: la tesi venne così accettata dal professore di Letteratura francese Ferdinando Neri e Pavese poté laurearsi con 108/110. L’attività di traduttore e l’insegnamento Nello stesso anno morì la madre e Pavese rimase ad abitare nella casa materna con la sorella Maria, dove visse fino al penultimo giorno della sua vita e incominciò, per guadagnare, l’attività di traduttore in modo sistematico alternandola all’insegnamento della lingua inglese. Per un compenso di 1000 lire tradusse Moby Dick di Herman Melville e Riso nero di Anderson. Scrisse un saggio sullo stesso Anderson e, ancora per “La Cultura”, un articolo sull’Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno su O. Henry. Risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca. Ottenne anche alcune supplenze nelle scuole di Bra, Vercelli e Saluzzo e incominciò anche a impartire lezioni private e a insegnare nelle scuole serali. Nel periodo che va dal settembre 1931 al febbraio 1932 Pavese compose un ciclo di racconti e poesie dal titolo Ciau Masino rimasto a lungo inedito, che verrà pubblicato per la prima volta nel 1968 in edizione fuori commercio e contemporaneamente nel primo volume dei Racconti delle “Opere di Cesare Pavese”. Nel 1933, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrese, pur malvolentieri, alle insistenze della sorella e di suo marito e si iscrisse al partito nazionale fascista, cosa che rimprovererà più tardi alla sorella Maria in una lettera del 29 luglio 1935 scritta dal carcere di Regina Coeli: “A seguire i vostri consigli, e l’avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza”. Continuava intanto l’attività di multilingua, che terminò solamente nel 1947. Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce. Ebbe inizio in questo periodo un tormentato rapporto sentimentale con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca” alla quale dedicherà i versi di Incontro nella raccolta Lavorare stanca. L’incarico all’Einaudi Giulio Einaudi aveva intanto fondato la sua casa editrice. Le due riviste, “La riforma sociale” di Luigi Einaudi e “La Cultura”, che era stata concepita da Cesare De Lollis e in quel momento era diretta da Cajumi, si fusero dando vita a una nuova “La Cultura” della quale doveva diventare direttore Leone Ginzburg. Ma molti partecipanti del movimento "Giustizia e Libertà", tra cui anche Ginzburg, all’inizio del 1934 vennero arrestati e la direzione della rivista passò a Sergio Solmi. Pavese, intanto, fece domanda alla casa editrice per poter sostituire Ginzburg e, dal maggio di quell’anno, essendo egli tra i meno compromessi politicamente, incominciò la collaborazione con l’Einaudi dirigendo per un anno “La Cultura” e curando la sezione di etnologia. Sempre nel 1934, grazie alla raccomandazione di Ginzburg, riuscì a inviare ad Alberto Carocci, direttore a Firenze della rivista Solaria, le poesie di Lavorare stanca che vennero lette da Elio Vittorini con parere positivo tanto che Carocci ne decise la pubblicazione. L’arresto e la condanna per antifascismo Nel 1935 Pavese, intenzionato a proseguire nell’insegnamento, si dimise dall’incarico all’Einaudi e incominciò a prepararsi per affrontare il concorso di latino e greco ma, il 15 maggio, una delazione dello scrittore Dino Segre portò agli arresti di intellettuali aderenti a "Giustizia e Libertà", venne fatta una perquisizione nella casa di Pavese, sospettato di frequentare il gruppo di intellettuali a contatto con Ginzburg, e venne trovata, tra le sue carte, una lettera di Altiero Spinelli detenuto per motivi politici nel carcere romano. Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato e incarcerato dapprima alle Nuove di Torino, poi a Regina Coeli a Roma e, in seguito al processo, venne condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Ma Pavese, in realtà, era innocente, poiché la lettera trovata era rivolta a Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca” della quale era innamorato. Tina era però politicamente impegnata e iscritta al Partito comunista d’Italia clandestino e continuava ad avere contatti epistolari con Spinelli e le lettere pervenivano a casa di Pavese che le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo. Il 4 agosto 1935 Pavese giunse quindi in Calabria, a Brancaleone, e qui scrisse ad Augusto Monti «Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un’inutile castità». Nell’ottobre di quell’anno aveva incominciato a tenere quello che nella lettera al Lajolo definisce lo “zibaldone”, cioè un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere e aveva fatto domanda di grazia, con la quale ottenne il condono di due anni. Nel 1936, durante il suo confino, venne pubblicata la prima edizione della raccolta poetica Lavorare stanca che, malgrado la forma fortemente innovativa, passò quasi inosservata. Il ritorno a Torino Verso la fine del 1936, terminato l’anno di confino, Pavese fece ritorno a Torino e dovette affrontare la delusione di sapere che Tina stava per sposarsi con un altro e che le sue poesie erano state ignorate. Per guadagnarsi da vivere riprese il lavoro di traduttore e nel 1937 tradusse Un mucchio di quattrini (The Big Money) di John Dos Passos per Mondadori e Uomini e topi di Steinbeck per Bompiani. Dal 1º maggio accettò di collaborare, con un lavoro stabile e per lo stipendio di mille lire al mese, con la Einaudi, per le collane “Narratori stranieri tradotti” e “Biblioteca di cultura storica”, traducendo Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders di Defoe e l’anno dopo La storia e le personali esperienze di David Copperfield di Dickens oltre all’Autobiografia di Alice Toklas della Stein. Il passaggio alla prosa Nel frattempo incominciò a scrivere i racconti che verranno pubblicati postumi, dapprima nella raccolta “Notte di festa” e in seguito nel volume de I racconti e fra il 27 novembre del 1936 e il 16 aprile del 1939 completò la stesura del suo primo romanzo breve tratto dall’esperienza del confino intitolato Il carcere (il primo titolo era stato Memorie di due stagioni) che verrà pubblicato dieci anni dopo. Dal 3 giugno al 16 agosto scrisse Paesi tuoi che verrà pubblicato nel 1941 e sarà la prima opera di narrativa dello scrittore data alle stampe. Si andava intanto intensificando, dopo il ritorno dal confino di Leone Ginzburg da Pizzoli, negli Abruzzi, l’attività del gruppo clandestino di "Giustizia e Libertà" e quella dei comunisti con a capo Ludovico Geymonat. Pavese, che era chiaramente antifascista, venne coinvolto e, al di qua di una precisa e dichiarata definizione politica, incominciò ad assistere con crescente interesse alle frequenti discussioni che avvenivano a casa degli amici. Conobbe in questo periodo Giaime Pintor che collaborava ad alcune riviste letterarie ed era inserito alla Einaudi come traduttore dal tedesco e come consulente e nacque tra loro una salda amicizia. Il periodo della guerra Nel 1940 l’Italia era intanto entrata in guerra e Pavese era coinvolto in una nuova avventura sentimentale con una giovane universitaria che era stata sua allieva al liceo D’Azeglio e che gli era stata presentata da Norberto Bobbio. La ragazza, giovane e ricca di interessi culturali, si chiamava Fernanda Pivano e colpì lo scrittore a tal punto che il 26 luglio le propose il matrimonio; malgrado il rifiuto della giovane, l’amicizia continuò. Alla Pivano Pavese dedicò alcune poesie, tra le quali Mattino, Estate e Notturno, che inserì nella nuova edizione di Lavorare stanca. Lajolo scrive che "Per cinque anni Fernanda fu la sua confidente, ed è in lei che Pavese tornò a sperare per avere una casa ed un amore. Ma anche quella esperienza – così diversa – si concluse per lui con un fallimento. Sul frontespizio di Feria d’agosto sono segnate due date: 26 luglio 1940, 10 luglio 1945, che ricordano le due domande di matrimonio fatte a Fernanda, con le due croci che rappresentano il significato delle risposte". In quell’anno Pavese scrisse La bella estate (il primo titolo sarà La tenda), che verrà pubblicato nel 1949 nel volume dal titolo omonimo che comprende anche i romanzi brevi Il diavolo sulle colline e Tra donne sole; tra il 1940 e il 1941 scrisse La spiaggia, che vedrà una prima pubblicazione nel 1942 su “Lettere d’oggi” di Giambattista Vicari. Nel 1941, con la pubblicazione di Paesi tuoi, e quindi l’esordio narrativo di Pavese, la critica sembrò accorgersi finalmente dell’autore. Intanto, nel 1942, Pavese venne regolarmente assunto dalla Einaudi con mansioni di impiegato di prima categoria e con il doppio dello stipendio sulla base del contratto nazionale collettivo di lavoro dell’industria. Nel 1943 Pavese venne trasferito per motivi editoriali a Roma dove gli giunse la cartolina di precetto ma, a causa della forma d’asma di origine nervosa di cui soffriva, dopo sei mesi di convalescenza all’Ospedale militare di Rivoli venne dispensato dalla leva militare e ritornò a Torino che nel frattempo aveva subito numerosi bombardamenti e che trovò deserta dai numerosi amici, mentre sulle montagne si stavano organizzando le prime formazioni partigiane. Nel 1943, dopo l’8 settembre, Torino venne occupata dai tedeschi e anche la casa editrice venne occupata da un commissario della Repubblica sociale italiana. Pavese, a differenza di molti suoi amici che si preparavano alla lotta clandestina, si rifugiò a Serralunga di Crea, piccolo paese del Monferrato, dov’era sfollata la sorella Maria e dove strinse amicizia con il conte Carlo Grillo, che diventerà il protagonista de Il diavolo sulle colline. A dicembre, per sfuggire a una retata da parte dei repubblichini e dei tedeschi, chiese ospitalità presso il Collegio Convitto dei padri Somaschi di Casale Monferrato dove, per sdebitarsi, dava ripetizioni agli allievi. Leggeva e scriveva apparentemente sereno. Il 1º marzo, mentre si trovava ancora a Serralunga, gli giunse la notizia della tragica morte di Leone Ginzburg avvenuta sotto le torture nel carcere di Regina Coeli. Il 3 marzo scriverà: «L’ho saputo il 1º marzo. Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si prende l’abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani, e così si dimentica e non si è sofferto». Gli anni del dopoguerra (1945-1950) L’iscrizione al Partito comunista e l’attività a "L’Unità" Ritornato a Torino dopo la liberazione, venne subito a sapere che tanti amici erano morti: Giaime Pintor era stato dilaniato da una mina sul fronte dell’avanzata americana; Luigi Capriolo era stato impiccato a Torino dai fascisti e Gaspare Pajetta, un suo ex allievo di soli diciotto anni, era morto combattendo nella Val d’Ossola. Dapprima, colpito indubbiamente da un certo rimorso, che ben espresse in seguito nei versi del poemetto La terra e la morte e in tante pagine dei suoi romanzi, egli cercò di isolarsi dagli amici rimasti ma poco dopo decise di iscriversi al Partito comunista incominciando a collaborare al quotidiano l’Unità; ne darà notizia da Roma, dove era stato inviato alla fine di luglio per riorganizzare la filiale romana della Einaudi, il 10 novembre all’amico Massimo Mila: «Io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI». Come scrive l’amico Lajolo, «La sua iscrizione al partito comunista oltre ad un fatto di coscienza corrispose certamente anche all’esigenza che sentiva di rendersi degno in quel modo dell’eroismo di Gaspare e degli altri suoi amici che erano caduti. Come un cercare di tacitare i rimorsi e soprattutto di impegnarsi almeno ora in un lavoro che ne riscattasse la precedente assenza e lo ponesse quotidianamente a contatto con la gente... Tentava con quel legame anche disciplinare, di rompere l’isolamento, di collegarsi, di camminare assieme agli altri. Era l’ultima risorsa alla quale si aggrappava per imparare il mestiere di vivere». Nei mesi trascorsi presso la redazione de L’Unità conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi e ne divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori e Silvio Micheli che era giunto a Torino nel giugno del 1945 per parlare con Pavese della pubblicazione del proprio romanzo Pane duro. Alla sede romana della Einaudi Verso la fine del 1945, Pavese lasciò Torino per Roma dove ebbe l’incarico di potenziare la sede cittadina dell’Einaudi. Il periodo romano, che durò fino alla seconda metà del 1946, fu considerato dallo scrittore come un tempo d’esilio perché staccarsi dall’ambiente torinese, dagli amici e soprattutto dalla nuova attività politica, lo fece ricadere nella malinconia. Nella segreteria della sede romana lavorava una giovane donna, Bianca Garufi, e per lei Pavese provò una nuova passione, più impegnativa dell’idillio con la Pivano, che egli visse intensamente e che lo fece soffrire. Scriverà nel suo diario, il 1º gennaio del 1946, come consuntivo dell’anno trascorso: «Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?». Nel febbraio del 1946, in collaborazione con Bianca Garufi, a capitoli alterni, incominciò a scrivere un romanzo che rimarrà incompiuto e che sarà pubblicato postumo nel 1959 con il titolo, scelto dall’editore, di Fuoco grande. A Torino: la Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici Ritornato a Torino si mise a lavorare su quei temi delineatisi nella mente quando era a Serralunga. Incominciò a comporre i Dialoghi con Leucò e nell’autunno, mentre stava terminando l’opera, scrisse i primi capitoli de Il compagno con il quale volle testimoniare l’impegno per una precisa scelta politica. Terminati i Dialoghi, in attesa della pubblicazione del libro che avvenne a fine novembre nella collana “Saggi”, tradusse Capitano Smith di Robert Henriques. Il 1947 fu un anno intenso per l’attività editoriale e Pavese s’interessò particolarmente della Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici da lui ideata con la collaborazione di Ernesto De Martino, una collana che fece conoscere al mondo culturale italiano le opere di autori come Lévy-Bruhl, Malinowski, Propp, Frobenius, Jung, e che avrebbero dato avvio a nuove teorie antropologiche. Oltre a ciò, Pavese inaugurò anche la nuova collana di narrativa dei “Coralli” che era nata in quello stesso anno in sostituzione dei “Narratori contemporanei”. La febbrile attività narrativa Tra il settembre del 1947 e il febbraio del 1948, contemporaneamente a Il compagno, scrisse La casa in collina che uscì l’anno successivo insieme con Il carcere nel volume Prima che il gallo canti il cui titolo, ripreso dalla risposta di Cristo a Pietro, si riferisce, con tono palesemente autobiografico ai suoi tradimenti politici. Seguirà, tra il giugno e l’ottobre del 1948 Il diavolo sulle colline. Nell’estate del 1948 gli era stato intanto assegnato, per Il compagno, il Premio Salento, ma Pavese aveva scritto all’amico Carlo Muscetta di dimissionarlo da qualsiasi premio letterario, presente o futuro. Alla fine dell’anno uscì Prima che il gallo canti, che venne subito elogiato dai critici Emilio Cecchi e Giuseppe De Robertis. Dal 27 marzo al 26 maggio del 1949 scrisse Tra donne sole e, al termine del romanzo, andò a trascorrere una settimana a Santo Stefano Belbo e, in compagnia dell’amico Pinolo Scaglione, a suo agio tra quelle campagne, incominciò a elaborare quella che sarebbe diventata La luna e i falò, l’ultima sua opera pubblicata in vita. Il 24 novembre 1949 venne pubblicato il trittico La bella estate che comprendeva i già citati tre romanzi brevi composti in periodi diversi: l’eponimo del 1940, Il diavolo sulle colline del 1948 e Tra donne sole del 1949. Sempre nel 1949, scritto nel giro di pochi mesi e pubblicato nella primavera del 1950, scrisse La luna e i falò che sarà l’opera di narrativa conclusiva della sua carriera letteraria. A Roma: amore, l’ultimo Dopo essere stato per un brevissimo tempo a Milano, fece un viaggio a Roma dove si trattenne dal 30 dicembre del 1949 al 6 gennaio del 1950, ma rimase deluso: il 1º gennaio scriveva sul suo diario: In questo stato d’animo conobbe in casa di amici Constance Dowling, giunta a Roma con la sorella Doris, che aveva recitato in Riso amaro con Vittorio Gassman e Raf Vallone, e, colpito dalla sua bellezza, se ne innamorò. Ritornando a Torino, cominciò a pensare che, ancora una volta, si era lasciato sfuggire l’occasione, e quando Constance si recò a Torino per un periodo di riposo, i due si rividero e la donna lo convinse ad andare con lei a Cervinia, dove Pavese s’illuse di nuovo. Constance infatti aveva una relazione con l’attore Andrea Checchi e ripartì presto per l’America per tentare fortuna a Hollywood, lasciando lo scrittore amareggiato e infelice. A Constance, come per un addio, dedicò il romanzo La luna e i falò: «For C.– Ripeness is all». Il Premio Strega Nella primavera-estate del 1950 uscì la rivista Cultura e realtà; Pavese, che faceva parte della redazione, aprì il primo numero della rivista con un suo articolo sul mito, nel quale affermava la sua fede poetica di carattere vichiano, la quale non venne apprezzata dagli ambienti degli intellettuali comunisti. Cesare venne attaccato e, sempre più amareggiato, annotò nel suo diario il 15 febbraio «Pavese non è un buon compagno... Discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che ti stanno più a cuore», e ancora il 20 maggio: «Mi sono impegnato nella responsabilità politica che mi schiaccia.» Pavese era terribilmente depresso e neppure riuscì a risollevarlo il Premio Strega che ricevette nel giugno del 1950 per La bella estate; in quella occasione fu accompagnato da Doris Dowling, sorella dell’amata Constance. La morte Nell’estate 1950 trascorse alcuni giorni a Bocca di Magra, vicino a Sarzana, in Liguria, meta estiva di molti intellettuali, dove conobbe un’allora diciottenne Romilda Bollati, sorella dell’editore Giulio Bollati, appartenente alla nobile famiglia dei Bollati di Saint-Pierre (e futura moglie prima dell’imprenditore Attilio Turati poi del ministro Antonio Bisaglia). I due ebbero una breve storia d’amore, come testimoniano i manoscritti dello scrittore, che la chiamava con lo pseudonimo di “Pierina”. Tuttavia, nemmeno questo nuovo sentimento riuscì a dissipare la sua depressione; in una lettera dell’agosto 1950, scriveva: Il 17 agosto aveva scritto sul diario, pubblicato nel 1952 con il titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950: «Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò» e il 18 agosto aveva chiuso il diario scrivendo: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».In preda a un profondo disagio esistenziale, tormentato dalla recente delusione amorosa con Constance Dowling, alla quale dedicò i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, mise prematuramente fine alla sua vita il 27 agosto del 1950, in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, che aveva occupato il giorno prima. Venne trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero. Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, che si trovava sul tavolino aveva scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». All’interno del libro era inserito un foglietto con tre frasi vergate da lui: una citazione dal libro, «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia», una dal proprio diario, «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti», e «Ho cercato me stesso». Qualche giorno dopo si svolsero i funerali civili, senza commemorazioni religiose poiché suicida e ateo. Opera e poetica Importante fu l’opera di Pavese scrittore di romanzi, poesie e racconti, ma anche quella di traduttore e critico: oltre all’Antologia americana curata da Elio Vittorini, essa comprende la traduzione di classici della letteratura da Moby Dick di Melville, nel 1932, a opere di Dos Passos, Faulkner, Defoe, Joyce e Dickens. Nel 1951 uscì postumo, edito da Einaudi e con la prefazione di Italo Calvino il volume La letteratura americana e altri saggi con tutti i saggi e gli articoli che Pavese scrisse tra il 1930 e il 1950. La sua attività di critico in particolare contribuì a creare, verso la metà degli anni trenta, il sorgere di un certo “mito dell’America”. Lavorando nell’editoria (per la Einaudi) Pavese propose alla cultura italiana scritti su temi differenti, e prima d’allora raramente affrontati, come l’idealismo e il marxismo, inclusi quelli religiosi, etnologici e psicologici. Opere L’elenco è in ordine cronologico in base alla data di pubblicazione delle rispettive prime edizioni. Poiché molti testi furono pubblicati anni dopo essere stati composti, dove opportuno sono segnalate le date di composizione. Raccolte * Racconti, 3 voll., Torino, Einaudi, 1960. [Contiene i racconti editi in Feria d’agosto e Notte di festa con l’aggiunta di frammenti di racconti e racconti inediti] * Tutti i romanzi, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 2000. ISBN 88-446-0079-X. Tutti i racconti, a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 2002. ISBN 88-446-0081-1. [Contiene i già editi Racconti, e Ciau Masino, e altri testi già inseriti a partire dall’ed. del 1968 dell’opera omnia. Romanzi e racconti * Paesi tuoi, Torino, Einaudi, 1941. [romanzo] * Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1948. [Contiene i romanzi Il carcere, scritto nel 1938-1939, e La casa in collina] * La spiaggia, in “Lettere d’oggi”, a. III, nn. 7-8, 1941; poi in volume, Roma, Ed. Lettere d’oggi, 1942; Torino, Einaudi, 1956. [romanzo breve] * Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 1946. [racconti] * Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1947. [racconti: conversazioni a due tra personaggi mitologici] * Il compagno, Torino, Einaudi, 1947. [romanzo] * La casa in collina, Torino, Einaudi, 1948. [romanzo] * La bella estate, Torino, Einaudi, 1949. [Contiene i romanzi: La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline e Tra donne sole] * La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950. [romanzo] * Notte di festa, Torino, Einaudi, 1953. [racconti] * Fuoco grande, scritto a capitoli alterni con Bianca Garufi, Torino, Einaudi, 1959. [romanzo incompiuto] * Ciau Masino, Torino, Einaudi, 1968. * Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), a cura di Mariarosa Masoero, Collana Nuovi Coralli, Torino, Einaudi, 1993, ISBN 978-88-061-3200-2. Poesie * Lavorare stanca, Firenze, Solaria, 1936; ed. ampliata con le poesie dal 1936 al 1940, Torino, Einaudi, 1943. La terra e la morte, in “Le tre Venezie”, nn. 4-5-6, 1947; nuova edizione postuma, in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1951; compreso anche in Poesie edite e inedite, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1962. [9 poesie] * Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1951. [10 poesie inedite e quelle incluse in La terra e la morte] * Poesie del disamore e altre poesie disperse, Torino, Einaudi, 1962. [Contiene: Poesie del disamore, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, poesie escluse da Lavorare stanca, poesie del 1931‑1940 e due del 1946] * Poesie edite e inedite, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1962. [Contiene: Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e 29 poesie inedite] * 8 poesie inedite e quattro lettere a un’amica (1928-1929), Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1964. * Poesie giovanili, 1923-30, a cura di Attilio Dughera e Mariarosa Masoero, Torino, Einaudi, 1989. Saggi e diari * La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1951. [saggi e articoli 1930-1950] * Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952; nuova edizione condotta sull’autografo a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, Einaudi, 1990. ISBN 88-06-11863-3. * Interpretazione della poesia di Walt Whitman. Tesi di laurea, 1930, a cura di Valerio Magrelli, Torino, Einaudi, 2006. [edizione di 1000 esemplari numerati] * Dodici giorni al mare. [Un diario inedito del 1922], a cura di Mariarosa Masoero, Genova, Galata, 2008. ISBN 978-88-95369-04-4. * Il quaderno del confino, a cura di Mariarosa Masoero, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010. ISBN 978-88-6274-184-2. Sceneggiature * Il diavolo sulle colline; Gioventù crudele, in “Cinema Nuovo”, settembre-ottobre 1959. [soggetti cinematografici] * Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Lorenzo Ventavoli, Torino, Einaudi, 2009. ISBN 978-88-06-19800-8. Epistolari * Lettere 1924-1950I, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1966. * II, Lettere 1945-1950, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1966.Vita attraverso le lettere, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1973. * C. Pavese-Ernesto De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, A cura di Pietro Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, ISBN 978-88-339-0529-7. * Officina Einaudi. Lettere editoriali, 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, Torino, Einaudi, 2008. ISBN 978-88-06-19352-2. * C. Pavese-Felice Balbo-Natalia Ginzburg, Lettere a Ludovica [Nagel], A cura di Carlo Ginzburg, Milano, Archinto, 2008, ISBN 978-88-776-8517-9. * C. Pavese-Renato Poggioli, «A Meeting of minds». Carteggio (1947-1950), A cura di S. Savioli, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, ISBN 978-88-627-4219-1. * Una bellissima coppia discorde. Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi 1945-1950, a cura di Mariarosa Masoero, Collana Saggi e testi n.20, Firenze, Olschki, 2011, ISBN 978-88-222-6074-1. Traduzioni * Sinclair Lewis, Il nostro signor Wrenn. Storia di un gentiluomo romantico, Firenze, Bemporad, 1931. * Herman Melville, Moby Dick o La balena, Torino, Frassinelli, I ed. 1932; II ed. riveduta, Frassinelli, 1941. * Sherwood Anderson, Riso nero, Torino, Frassinelli, 1932. * James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, Torino, Frassinelli, 1933. * John Dos Passos, Il 42º parallelo, Milano, A. Mondadori, 1934. * John Dos Passos, Un mucchio di quattrini, Milano, A. Mondadori, 1938. * John Steinbeck, Uomini e topi, Milano, Bompiani, 1938. * Gertrude Stein, Autobiografia di Alice Toklas, Torino, Einaudi, 1938. * Daniel Defoe, Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders, Torino, Einaudi, 1938. * Charles Dickens, David Copperfield, Torino, Einaudi, 1939. * Christopher Dawson, La formazione dell’unità europea. Dal secolo V al secolo XI, Torino, Einaudi, 1939. * George Macaulay Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, Torino, Einaudi, 1940. * Herman Melville, Benito Cereno, Torino, Einaudi, 1940. * Gertrude Stein, Tre esistenze, Torino, Einaudi, 1940. * Christopher Morley, Il cavallo di Troia, Milano, Bompiani, 1941. * William Faulkner, Il borgo, Milano, A. Mondadori, 1942. * Robert Henriques, Capitano Smith, Torino, Einaudi, 1947. * La Teogonia di Esiodo e Tre Inni omerici, a cura di Attilio Dughera, Collezione di poesia, Torino, Einaudi, 1982. [versione redatta negli anni 1947-1948] * Percy Bysshe Shelley, Prometeo slegato, A cura di Mark Pietralunga, Collezione di poesia n.260, Torino, Einaudi, 1997. [versione redatta nel 1925] * Quinto Orazio Flacco, Le Odi, A cura di Giovanni Barberi Squarotti, Collana Saggi e testi n.21, Firenze, Olschki, 2013, ISBN 978-88-222-6243-1. [versione redatta nel 1926] Francesca Belviso, Amor Fati. Pavese all’ombra di Nietzsche. La volontà di potenza nella traduzione di Cesare Pavese, Introduzione di Angelo D’Orsi, Torino, Aragno, 2016, ISBN 978-88-841-9772-6. [contiene in appendice la versione parziale dell’opera del filosofo tedesco: condotta tra il 1945-1946, fu rifiutata da Einaudi] Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Pavese

Ludovico Ariosto Ludovico Ariosto

Ludovico Ariosto (Reggio nell’Emilia, 8 settembre 1474 – Ferrara, 6 luglio 1533) è stato un poeta, commediografo, funzionario e diplomatico italiano, autore dell’Orlando furioso (1516-1521-1532). È considerato uno degli autori più celebri ed influenti del suo tempo. Le sue opere, il Furioso in particolare, simboleggiano una potente rottura degli standard e dei canoni dell’epoca. La sua ottava, definita “ottava d’oro”, rappresenta uno dei massimi della letteratura pre-illuminista. Biografia Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia l’8 settembre del 1474, primo di dieci fratelli. Suo padre Niccolò, proveniente dalla nobile famiglia degli Ariosti, faceva parte della corte del duca Ercole I d’Este ed era comandante del presidio militare degli Estensi a Reggio Emilia. La madre, Daria Malaguzzi Valeri, era una nobildonna di Reggio.Ludovico dapprima intraprese, per volontà del padre, studi di legge a Ferrara, ma li abbandonò dopo poco tempo per concentrarsi pienamente negli studi umanistici sotto la guida del monaco agostiniano Gregorio da Spoleto. Ariosto seguì nel frattempo studi di filosofia presso l’Università di Ferrara, appassionandosi così anche alla poesia in volgare. Il fatto che il padre fosse funzionario della corte degli Estensi gli permise, fin dalla giovane età, di avere contatti con il mondo della corte, luogo della sua formazione letteraria e umanistica. Divenuto amico di Pietro Bembo, condivise con lui l’entusiasmo e la passione per le opere di Petrarca. Alla morte del padre, nel 1500, Ludovico si ritrovò a dover badare alla famiglia; nel 1502 si vide “costretto” ad accettare l’incarico di capitano della rocca presso Canossa ed è proprio qui che, da Maria, domestica che già aveva servito il padre, gli nasce Giambattista, il primogenito che Ludovico non sarà mai completamente convinto di dover riconoscere come proprio, contestando l’affidabilità di Maria. Successivamente, rientrato a Ferrara, non ancora trentenne diviene funzionario e viene assunto dal cardinale Ippolito d’Este (figlio di Ercole), per ottenere alcuni benefici ecclesiastici, facendosi poi chierico. Nel 1506 fu investito del beneficio della ricca parrocchia di Montericco (ora frazione di Albinea, in provincia di Reggio Emilia). Questa condizione gli spiacque molto: Ippolito era uomo avaro, ignorante e gretto; Ariosto stesso era divenuto un umile cortigiano, un ambasciatore, un “cavallaro”. Potrebbe meravigliare che l’Ariosto fosse addirittura “ cameriere “ alle dipendenze del Cardinale: in realtà questo termine deve essere inteso come cameriere segreto o come cameriere d’onore. In questo periodo, quindi, a causa delle faccende diplomatiche e politiche di cui doveva occuparsi, non ebbe tempo di dedicarsi alla letteratura. Nel 1509, a Ferrara, da un’altra domestica di casa Ariosto, Orsolina di Sassomarino, gli nasce un altro figlio, Virginio, che verrà poi legittimato e che seguirà le orme del padre. Il legame con Orsolina durò vari anni e fu importante per il poeta, che comprò alla madre del suo secondogenito una casa nella strada di San Michele, poi via del Turco. Nel 1513, dopo la morte del papa Giulio II della Rovere, venne eletto papa Leone X (Giovanni dei Medici), che aveva spesso manifestato stima e amicizia nei confronti dell’Ariosto. Il poeta considerava Roma il centro culturale italiano per eccellenza e decise così di recarsi alla curia papale con la speranza di trasferirvisi dopo aver ottenuto un incarico, ma invano. Intanto a Firenze Ariosto si innamorò di una donna, Alessandra Benucci, moglie del mercante Tito Strozzi, che frequentava la corte estense per affari. Successivamente, dopo essere rimasta vedova nel 1515, la donna si trasferì a Ferrara, iniziando una relazione con lo scrittore. L’Ariosto era stato sempre restio al matrimonio; pertanto si sposò solo dopo anni, in gran segreto per la paura di perdere i benefici ecclesiastici che gli erano stati concessi e con lo scopo di evitare che alla donna venisse revocata l’eredità del marito.Nel 1516 pubblicò la prima edizione dell’Orlando furioso, poema diviso in 40 canti, la cui stesura era iniziata 11 anni prima della pubblicazione. Lo dedicò al suo signore, il quale non lo apprezzò affatto. Quando nel 1517 Ippolito d’Este divenne vescovo di Agria (nome italiano per Eger, nell’Ungheria orientale), Ludovico si rifiutò di seguirlo, adducendo motivi di salute. In realtà le cause sono da ricercare nell’astio verso il cardinale, nell’amore per la sua Ferrara e in quello per la sua donna. Passò quindi al servizio di Alfonso. Anche questa si trattava di «servitù», ma «di minor disagio e probabilmente era più dignitosa». Nel 1522 Alfonso gli affidò l’arduo compito di governatore della Garfagnana, da poco annessa al Ducato, regione turbolenta, abitata da una popolazione fiera ed indomita poco avvezza al comando ed infestata da banditi, in cui l’ordine doveva essere mantenuto con la forza; in quest’occasione Ariosto dimostrò abilità politiche e pratiche. Pure queste attività gli erano invise perché gli impedivano di dedicarsi agli studi ed alla poesia. Dal 1525 tornò a Ferrara e passò i suoi ultimi anni tranquillamente, dedicandosi alla scrittura e alla messa in scena di alcune commedie e all’ampliamento dell’Orlando furioso. Rifiutò l’incarico di ambasciatore papale, spiegando che desiderava occuparsi delle sue opere e della famiglia.Nel 1532 Ariosto accompagnò Alfonso all’incontro a Mantova con l’imperatore Carlo V; al rientro a Ferrara, si ammalò di enterite e morì, dopo alcuni mesi di malattia, il 6 luglio 1533. Ludovico fu sepolto dapprima nella chiesa di San Benedetto a Ferrara e successivamente venne tumulato con grandi onori a Palazzo Paradiso. Il suo monumento funebre è opera dello scultore mantovano Alessandro Nani su disegno dell’architetto Giovan Battista Aleotti. Personalità Ariosto nelle sue opere lascia di sé l’immagine di uomo amante della vita sedentaria, tranquilla, scevra di atteggiamenti eroici.In realtà si tratta di un’immagine letteraria, di «una scelta matura e meditata». Per dovere o per scelta, egli viaggiò molto e dimostrò anche notevoli doti pratiche. Si è di fronte all’ultimo grande umanista e alla crisi dell’Umanesimo: Ariosto rappresenta ancora l’uomo nuovo che si pone al centro del mondo, il demiurgo che con l’arte plasma la realtà fantastica, ma non lo è nella sua vita sociale di umile cortigiano subordinato alla volontà di un signore. Opere Poesia lirica La produzione lirica di Ariosto viene suddivisa in due filoni: latino e volgare. Il primo degli anni della giovinezza comprende sessantasette opere ed ha importanza documentaria. Il secondo è formato da dieci opere originali ed importanti.Complessivamente la produzione lirica ariostesca comprende ottantasette componimenti (sonetti, madrigali, canzoni, egloghe e capitoli in terza rima). Le opere, non raccolte in un canzoniere organico, vennero pubblicate solo postume nel 1546. Ariosto viene influenzato dal modello petrarchesco riproposto dall’amico Pietro Bembo. Da questa scelta deriva la ricerca meticolosa del lessico e della metrica e la rilevanza del tema dell’amore.Risulta interessante la sua reinterpretazione umanistica. Mentre Bembo si discosta poco dai dettami petrarcheschi Ariosto li adatta ai canoni dell’Umanesimo, riferendosi costantemente ai classici latini come Tibullo, Properzio, Catullo e Orazio. Orlando furioso L’Orlando furioso è un poema cavalleresco in ottave, a schema ABABABCC, strutturato su 46 canti, per un totale di 38.736 versi nell’edizione definitiva del 1532. Vi sono state infatti due edizioni precedenti, scritte con una lingua più popolare e rozza. In particolare, una prima redazione dell’Orlando furioso, in 40 canti, era stata redatta nel 1515 e venne pubblicata nel 1516. La seconda edizione uscì nel 1521, caratterizzata da una lieve revisione linguistica.L’opera ha una trama molto stratificata che si sviluppa sostanzialmente su tre narrazioni principali: quella militare, costituita dalla guerra tra i paladini, difensori della religione cristiana, e i Saraceni infedeli; quella amorosa, incentrata sulla fuga di Angelica e sulla pazzia di Orlando, e infine quella encomiastica, con cui si lodava la grandezza dei duchi d’Este, dedicata invece alle vicende amorose tra la cristiana Bradamante e il saraceno Ruggiero.L’Orlando furioso si propone come il naturale prosieguo dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo; Ariosto continuò la narrazione proprio dove Boiardo la interruppe, facendo evolvere la vicenda amorosa tra Angelica e Orlando che, a causa del rifiuto dell’amata, diviene furioso, pazzo per amore.La lingua definitiva dell’Orlando furioso è ben diversa da quella delle edizioni precedenti. In principio il registro linguistico, ricco di termini toscani, padani e latineggianti, teneva conto delle espressività popolari, essendo più orientato a un pubblico ferrarese o padano. Fu solo dopo che Ariosto si rese conto della portata di capolavoro dell’opera si mirò a creare un modello linguistico italiano nazionale, secondo i canoni teorizzati da Pietro Bembo nelle sue Prose della volgar lingua. La revisione tuttavia non riguarda soltanto l’aspetto linguistico e stilistico, ma anche i contenuti: vi è l’aggiunta di diversi episodi significativi come quello di Olimpia (canti IX-XI) e soprattutto di Marganorre (XXXVII) fino a raggiungere l’attuale struttura di 46 canti. L’inserimento di questi episodi provocò anche una variazione degli equilibri strutturali. Infatti, l’episodio di Marganorre, feroce tiranno persecutore delle donne, funge da contrappeso a quello delle femmine omicide. Uno degli obiettivi di Ariosto è quello di invitare il lettore ad una riflessione sul reale. Uno dei procedimenti volti a questo è quello dello straniamento, che consiste in un cambiamento della prospettiva in modo da guardare l’argomento trattato con imparzialità, impedendo al lettore l’immedesimazione emotiva e invogliandolo ad un atteggiamento critico. Un simile effetto avviene soprattutto grazie all’intervento della voce narrante nel corso della narrazione. Ad esempio, nel I canto, quando Angelica afferma avanti a Sacripante di essere ancora vergine, la voce narrante commenta: «Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore; / ma parve facilmente a lui possibile, / ch’era perduto in via più grave errore» Un commento del genere, inevitabilmente, costringe a riflettere sull’ambiguità dei personaggi e su ciò a cui si sta assistendo. Sempre volto alla riflessione sul reale, è il procedimento dell’abbassamento, consistente nell’abbassare appunto la dignità eroica dei suoi personaggi, riportandoli ad un livello comune e quotidiano. Evento maggiormente significativo è quando Orlando si rende conto dell’amore di Angelica con Medoro e il suo letto gli pare «più duro ch’un sasso, e più pungente / che se fosse d’urtica»: l’ortica ovviamente non rende grazie al personaggio di Orlando, tanto acclamato nella precedente generazione, ora viene, volutamente e non per semplice gioco parodico, svilito per riflettere sul comportamento degli uomini. Satire Le Satire sono l’opera ariostesca più apprezzata dalla storia dopo il Furioso. Si tratta di sette componimenti in terzine, scritti in forma di lettere indirizzate da Ariosto a parenti e amici realmente esistiti, plasmate secondo i canoni delle satire latine e in particolar modo secondo i canoni oraziani.I temi principali delle Satire riguardano la condizione dell’intellettuale cortigiano, il contrasto fra questa condizione e il desiderio di libertà personale, l’aspirazione ad una vita dedita allo studio lontana dall’avidità della corte e dalla corruzione della politica. L’atteggiamento di Ariosto è sì ironico, ma sempre pacato e tollerante, senza mai dar vita a situazioni polemiche. Questo non va confuso con un disinteresse nei confronti della realtà; al contrario, testimonia la sua capacità di osservazione, ottenuta dopo importanti esperienze personali in campo politico, seppur compiute controvoglia .Le Satire rappresentano in tutto e per tutto una pietra miliare della letteratura ariostesca e rinascimentale in genere, in quanto è apprezzabile quell’atteggiamento riflessivo, tanto caro ai letterati post 1494, che è sì presente anche nell’Orlando furioso, ma che appare in maniera più evidente grazie all’assenza della componente fiabesca e fantastica. Commedie * Di seguito vengono riportate le commedie prodotte da Ariosto: * La tragedia di Tisbe, perduta, 1493 (trattandosi di una tragedia di ispirazione ovidiana, sarebbe piuttosto da inserire in una più generica categoria dei testi drammatici); * La Cassaria, in prosa, 1508; * I Suppositi, in prosa, 1509; * Il Negromante, in versi, 1520; * La Lena, in versi, 1528; * Gli studenti, incompiuta, in versi, 1518-19. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Ludovico_Ariosto

Roberto Antonio Gargiulo Roberto Antonio Gargiulo

Mi chiamo Roberto Antonio Gargiulo, sono nato il 18 gennaio del 1999 in una casa in provincia di Caserta. Il mio percorso artistico è iniziato nel 2002, quando avevo tre anni. Passavo il tempo ad osservare e poi disegnare con la matita tutto ciò che mi attirava. Ho scoperto da solo la prospettiva, e a sei anni mi è stato proposto di partecipare come uditore alle lezioni del Liceo Artistico di Santa Maria Capua Vetere. Intanto a cinque anni ho iniziato a studiare pianoforte. Alle medie sviluppai interesse per la recitazione e la composizione. Nello stesso periodo vivevo una forte crisi con il disegno, incompreso dagli insegnanti e insofferente nei confronti della matita. Per otto anni non ho più disegnato, se non piccoli e sporadici schizzi. Successivamente, durante gli anni del Liceo musicale a Capua, ho iniziato a nutrire interesse per la scrittura creativa, la poesia e la fotografia. Poi, libero dagli impegni scolastici, finalmente ho potuto studiare approfonditamente le varie discipline che mi avevano colpito negli anni precedenti. Nel 2017 mi sono iscritto all'Accademia di Belle Arti di Napoli, che lasciai dopo tre mesi per continuare gli studi da un maestro. Allo stesso tempo iniziai a studiare pianoforte al Conservatorio Cimarosa di Avellino (laureandomi nel 2020), e privatamente canto, composizione, recitazione e fotografia. Da autodidatta invece ho approfondito la poesia e la scrittura creativa. Il mio obiettivo artistico è quello di unire due o più arti in un'opera grande, nuova, variegata, completa: qualcosa che incarni l'universalità del nostro periodo storico globale. Credo che possa definirmi un "nomade" artistico, un viandante che cerca di avere quanti più strumenti possibili per esprimersi, in una continua ricerca interna e del mondo. A questo viaggio, progetto e concetto do il nome di Ars.

Eugenio Montale Eugenio Montale

Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è stato un poeta e scrittore italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1975. Biografia Anni giovanili Eugenio Montale nacque a Genova, in un palazzo dell’attuale corso Dogali, nella zona soprastante Principe, il 12 ottobre 1896, ultimo dei cinque figli di Domenico Montale e Giuseppina Ricci, esponenti della media borghesia genovese. Il padre era comproprietario di una ditta di prodotti chimici, la società G. G. Montale & C., tra l’altro fornitrice di Veneziani S.p.A., azienda presso cui era impiegato Italo Svevo. Crescita Inizia gli studi all’istituto “Vittorino Da Feltre” di Via Maragliano gestito dai Barnabiti (rettore è padre Rodolfo Trabattoni, vice rettore padre Giovanni Semeria). Il 21 maggio riceve la cresima. Sebbene per lui vengano preferiti, a causa della sua salute precaria, i più brevi studi tecnici in luogo di quelli classici e venga dunque iscritto nel 1915 all’istituto tecnico commerciale “Vittorio Emanuele”, dove si diplomerà in ragioneria, il giovane Montale ha la possibilità di coltivare i propri interessi prevalentemente letterari, frequentando le biblioteche cittadine e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia. La sua formazione è dunque quella tipica dell’autodidatta, che scopre interessi e vocazione attraverso un percorso libero da condizionamenti. Letteratura (Dante, Petrarca, Boccaccio e D’Annunzio su tutti, autori che lo stesso Montale affermerà di avere “attraversato”) e lingue straniere sono il terreno in cui getta le prime radici, la sua formazione e il suo immaginario, assieme al panorama, ancora intatto, della Riviera ligure di Levante: Monterosso al Mare e le Cinque Terre, dove la famiglia trascorre le vacanze. «Scabri ed essenziali», come egli definì la sua stessa terra, gli anni della giovinezza delimitano in Montale una visione del mondo in cui prevalgono i sentimenti privati e l’osservazione profonda e minuziosa delle poche cose che lo circondano – la natura mediterranea e le donne della famiglia. Ma quel “piccolo mondo” è sorretto intellettualmente da una vena linguistica nutrita di queste lunghe letture, finalizzate soprattutto al piacere della conoscenza e della scoperta. In questo periodo di formazione Montale coltiva inoltre la passione per il canto, studiando dal 1915 al 1923 con l’ex baritono Ernesto Sivori, esperienza che lascia in lui un vivo interesse per la musica, anche se non si esibirà mai in pubblico. Riceverà comunque già nel 1942 dediche da Tommaso Landolfi, fondatore con altri della rivista Letteratura. Grande Guerra e avvento del Fascismo Nell’anno 1917, dopo quattro visite mediche, è dichiarato idoneo al servizio militare, a settembre è arruolato nel 23º fanteria a Novara, frequenta a Parma il corso allievi ufficiali di complemento ottenendo il grado di sottotenente di fanteria e chiede di essere inviato al fronte. Dall’aprile 1917 combatte in Vallarsa, inquadrato nei “Leoni di Liguria” del 158º Reggimento fanteria ed il 3 novembre 1918 conclude l’esperienza combattente entrando a Rovereto. In seguito fu trasferito a Chienes, poi al campo di reduci di guerra dell’Eremo di Lanzo e, infine, fu congedato con il grado di tenente all’inizio del 1920. Negli anni tra il 1919 e il 1923 conosce a Monterosso Anna degli Uberti (1904-1959), protagonista femminile in un insieme di poesie montaliane, trasversali nelle varie opere, note come “ciclo di Arletta” (chiamata anche Annetta o capinera). Nel 1924 conosce la giovane di origine peruviana Paola “Edda” Nicoli, anch’ella presente negli Ossi di seppia e ne Le occasioni. È il momento dell’affermazione del fascismo, dal quale Montale prende subito le distanze sottoscrivendo nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Il suo antifascismo ha una dimensione non tanto politica quanto culturale: esso si nutre di un disagio esistenziale e di un sentimento di malessere nei confronti della civiltà moderna tout court. È un antifascismo aristocratico e snobistico. Montale vive questo periodo nella “reclusione” della provincia ligure, che gli ispira una visione profondamente negativa della vita. Il suo pessimismo non essendo immediatamente riconducibile alla politica sopravvive anche dopo l’avvento della democrazia: è evidente ne La bufera e altro nel suo non riconoscersi nei due partiti di massa (DC e PCI) e nella società dei consumi. Soggiorno a Firenze Montale giunge a Firenze nel 1927 per il lavoro di redattore ottenuto presso l’editore Bemporad. Nel capoluogo toscano gli anni precedenti erano stati decisivi per la nascita della poesia italiana moderna, soprattutto grazie alle aperture della cultura fiorentina nei confronti di tutto ciò che accadeva in Europa: le Edizioni de La Voce; i Canti Orfici di Dino Campana (1914); le prime liriche di Ungaretti per Lacerba; e l’accoglienza di poeti come Vincenzo Cardarelli e Umberto Saba. Montale, dopo l’edizione degli Ossi del 1925, nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux. Curiosamente, come ricordava lo stesso Montale, fu inserito in una lista di possibili candidati da Paolo Emilio Pavolini e venne scelto dall’allora podestà fiorentino Giuseppe Della Gherardesca, essendo l’unico non iscritto al Partito Fascista. Dieci anni più tardi, per l’identico motivo, Montale venne esonerato dall’incarico, dopo che per 18 mesi gli era stato sospeso lo stipendio, nel tentativo di “incoraggiarlo” ad iscriversi al PNF.In quegli anni collabora alla rivista Solaria, frequenta i ritrovi letterari del caffè Le Giubbe Rosse conoscendovi Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi e Elio Vittorini, e scrive per quasi tutte le nuove riviste letterarie che nascono e muoiono in quegli anni di ricerca poetica. In questo contesto prova anche l’arte pittorica imparando dal Maestro Elio Romano l’impasto dei colori e l’uso dei pennelli. Nel '29 è ospite nella casa di Drusilla Tanzi (che aveva conosciuto nel '27) e del marito, lo storico d’arte Matteo Marangoni, casa dove due anni prima gli avevano presentato anche Gerti Frankl. La vita a Firenze però si trascina per il poeta tra incertezze economiche e complicati rapporti sentimentali; nel 1933 conosce l’italianista americana Irma Brandeis, con cui avvia una quinquennale storia d’amore, cantandola con il nome di Clizia in molte poesie confluite ne Le occasioni. Legge molto Dante e Svevo, e i classici americani. Fino al 1948, l’anno del trasferimento a Milano, egli pubblica Le occasioni e le prime liriche di quelle che formeranno La bufera e altro (che uscirà nel 1956). Montale, che non si era iscritto al Partito fascista e dopo il delitto di Giacomo Matteotti era stato firmatario del manifesto crociano, prova subito dopo la guerra ad iscriversi al Partito d’azione, ma ne esce pochissimo tempo dopo. Soggiorno a Milano Montale trascorre l’ultima parte della sua vita (dal 1948 alla morte) a Milano. Diventa redattore del Corriere della Sera e critico musicale per il “Corriere d’informazione”. Scrive inoltre reportage culturali da vari Paesi (fra cui il Medio Oriente, visitato in occasione del pellegrinaggio di Papa Paolo VI in Terra Santa). Scrive altresì di letteratura anglo-americana per la terza pagina, avvalendosi anche della collaborazione dell’amico americano Henry Furst, il quale gli invia molti articoli su autori e argomenti da lui stesso richiesti. La vicenda venne rivelata da Mario Soldati nel racconto “Due amici” (Montale e Furst) nel volume Rami secchi (Rizzoli 1989) e soprattutto da Marcello Staglieno, con la pubblicazione su una terza pagina de il Giornale diretto da Indro Montanelli di alcune delle lettere inedite di Montale all’amico. Nel 1956, oltre a La bufera esce anche la raccolta di prose Farfalla di Dinard. Amava anche collaborare con vari artisti ed è il caso ad esempio di Renzo Sommaruga, scultore e artista figurativo, di cui nel 1957 scrisse la presentazione della sua personale parigina e che si può trovare nel Secondo Mestiere. Il 23 luglio 1962 sposa Drusilla Tanzi, con cui conviveva dal 1939, di dieci anni più anziana di lui, con rito religioso a Montereggi, presso Fiesole; il rito civile viene celebrato a Firenze il 30 aprile 1963 (Matteo Marangoni, primo marito di lei, era morto nel 1958), la quale morirà tuttavia a Milano il 20 ottobre dello stesso anno all’età di 77 anni. La salute di Drusilla si era rapidamente deteriorata, per la frattura di un femore in seguito a una caduta accidentale nell’agosto di quell’anno. Nel 1969 viene pubblicata un’antologia dei reportage di Montale, intitolata Fuori di casa, in richiamo al tema del viaggio. Il mondo di Montale, tuttavia, risiede in particolare nella “trasognata solitudine”, come la definisce Angelo Marchese, del suo appartamento milanese di via Bigli, dove viene amorevolmente assistito, alla morte di Drusilla, da Gina Tiossi. Ultimi anni Le ultime raccolte di versi, Xenia (1966, dedicata alla moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963), Satura (1971) e Diario del '71 e del '72 (1973), testimoniano in modo definitivo il distacco del poeta – ironico e mai amaro – dalla Vita con la maiuscola: «pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato» (Montale, Intenzioni. Intervista immaginaria, Milano 1976). Sempre nel 1966 Montale pubblicò i saggi Auto da fé, una lucida riflessione sulle trasformazioni culturali in corso. Anche se poeta trasognato e “dimesso”, è anche stato oggetto di riconoscimenti ufficiali: lauree honoris causa (Università di Milano nel 1961, Università di Cambridge 1967, La Sapienza 1974). Fu nominato senatore a vita il 13 giugno 1967 dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per i meriti in campo letterario, aderendo al gruppo del PLI e poi a quello del PRI.Nel pieno del dibattito civile sulla necessità dell’impegno politico degli intellettuali, Montale continuò ad essere un poeta molto letto in Italia. Nel 1975 ricevette il Premio Nobel per la letteratura «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni».. Nel 1976 scrisse il commiato funebre al suo collega defunto, il salernitano Alfonso Gatto. L’anno seguente gli fu chiesto se, una volta sorteggiato, avrebbe accettato di fare il giurato in un processo contro le Brigate Rosse: “Credo di no”, rispose l’anziano poeta, "sono un uomo come gli altri e non si può chiedere a nessuno di fare l’eroe".Eugenio Montale morì a Milano la sera del 12 settembre 1981, un mese prima di compiere 85 anni, nella clinica San Pio X dove si trovava ricoverato per problemi derivati da una vasculopatia cerebrale. I funerali di Stato furono celebrati due giorni dopo nel Duomo di Milano dall’allora arcivescovo della diocesi Carlo Maria Martini. Venne sepolto nel cimitero accanto alla chiesa di San Felice a Ema, sobborgo nella periferia sud di Firenze, accanto alla moglie Drusilla. Nella seduta del successivo 8 ottobre, il Senato commemorò la figura di Montale, attraverso i discorsi del presidente Amintore Fanfani e del presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. Le opere * Le raccolte di versi contengono la storia della sua poesia: * Ossi di seppia, Torino, Gobetti, 1925. * La casa dei doganieri e altri versi, Firenze, Vallecchi, 1932. * Poesie, Firenze, Parenti, 1938. * Le occasioni, Torino, Einaudi, 1939. * Finisterre. Versi del 1940-42, Lugano, Collana di Lugano, 1943. * Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1948. * La bufera e altro, Venezia, Neri Pozza, 1956. * Farfalla di Dinard, Venezia, Neri Pozza, 1956. * Xenia. 1964-1966, San Severino Marche, Bellabarba, 1966. * Auto da fé. Cronache in due tempi, Milano, Il Saggiatore, 1966. Fuori di casa, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969; Collana SIS, Mondadori, 1973; Oscar Moderni, Mondadori, 2017. [40 prose di viaggi apparse originariamente sul Corriere della Sera e sul Corriere d’Informazione fra il 1946 e il 1964] * Satura. 1962-1970, Milano, A. Mondadori, 1971. * Nel nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1972. * Diario del '71 e del '72, Milano, A. Mondadori, 1973. * Sulla poesia, Milano, A. Mondadori, 1976. * Quaderno di quattro anni, Milano, A. Mondadori, 1977. * Altri versi e poesie disperse, Milano, A. Mondadori, 1981. * Diario postumo. Prima parte: 30 poesie, Milano, A. Mondadori, 1991. ISBN 88-04-34169-6. * Diario postumo. 66 poesie e altre, Milano, A. Mondadori, 1996. ISBN 88-04-41032-9. [sul testo, pubblicato postumo, alcuni studiosi hanno manifestato il dubbio di non autenticità Ossi di Seppia Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l’affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l’impossibilità di dare una risposta all’esistenza: in una delle liriche, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell’opera designa l’esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l’uomo, che con l’età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale. In tal modo Montale capovolge l’atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell’uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce “Divina Indifferenza”, ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all’uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale “Divina indifferenza” è l’esatto contrario della “Provvidenza divina” manzoniana. La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in quattro sezioni, a loro volta organizzate al loro interno: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un’epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un’interpretazione compiuta della vita e dell’uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l’attesa di un miracolo. L’emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce comunque nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine da “reclusione” interiore genera il colloquio con le cose, quelle della riviera ligure, o del mare. Una natura “scarna, scabra, allucinante”, e un “mare fermentante” dal richiamo ipnotico, proprio del paesaggio mediterraneo. Il manoscritto autografo di Ossi di seppia è conservato presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. Le occasioni In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall’abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e dantista americana Irma Brandeis, di origini ebraiche e perciò costretta a rimpatriare dopo la promulgazione delle leggi razziali. La memoria è sollecitata da alcune “occasioni” di richiamo, in particolare si delineano figure femminili, per esempio la fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta (già presente negli Ossi), oppure Dora Markus, della omonima poesia: sono nuove “Beatrici” a cui il poeta affida la propria speranza. La figura della donna, soprattutto Clizia (senhal di Irma), viene perseguita da Montale attraverso un’idea lirica della donna-angelo, messaggera divina. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell’amore fortemente idealizzata, che non si traduce necessariamente in realtà. Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi, e anche se non di un ermetismo irrazionale, espressione di una sua personale tensione razionale e sentimentale. In Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, molto presente nella poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l’idea della morte, l’impossibilità di dare una spiegazione valida all’esistenza, lo scorrere inesorabile del tempo (Non recidere, forbice, quel volto). La bufera e altro Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della “crisi” che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti. Per quanto riguarda l’engagement tipico di quegli anni, non ce n’è alcuna traccia. Xenia e Satura Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia di vita, quasi temesse di non avere abbastanza tempo “per dire tutto” (quasi una sensazione di vicinanza della morte); Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata “Mosca” per le spesse lenti degli occhiali da vista. Il titolo richiama xenia, che nell’antica Grecia erano i doni fatti all’ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro– scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell’edizione Mondadori– Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell’impennata lirica e insieme la “prosa” che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.» Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Montale

Antonella Pederiva Antonella Pederiva

BIOGRAFIA DI ANTONELLA PEDERIVA - Poeta e Scrittrice Antonella Pederiva è una collaboratrice giornalistica, web citizen journalist, scrittrice e poeta, appassionata di musica, arte, psicologia e filosofia. Nel 2017 dà alle stampe il suo libro d'esordio, “Anima d’aquila” (Alpinia Itinera), 90 poesie scelte a coprire l’arco di una vita. Nel 2019, per Aletti Editore, pubblica “Fiore di Loto” che viene così introdotto da Alessandro Quasimodo, figlio del premio Nobel Salvatore Quasimodo: “ […] una metafora dell’uomo puro in mezzo al fango che non si adatta a degli stereotipi, che non accetta passivamente i dogmi degli altri, ma che si sforza di conoscere, di vivere nel dilemma, in una perenne discussione costruttiva[…]”. Numerosi i concorsi a cui ha partecipato, ottenendo sempre ottimi risultati di classifica e consensi dalla critica, terzo posto al Premio Postumia 1997, diploma d’onore con menzione d’encomio per “Anima d’aquila” al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti di Seravezza (Lucca) 2017, (premio in cui verrà segnalata nel 2018, diploma d’onore con menzione d’encomio anche nel 2019), segnalata al Premio “Il Bottaccio” 2017, finalista, segnalata e premiata con menzione di merito in decine di altri concorsi, tra i quali il Premio Il Tiburtino, il Premio Internazionale Salvatore Quasimodo, Il Premio Internazionale Maria Cumani Quasimodo, Il Premio Internazionale Dostoevskij, Premio La panchina dei versi, Premio Parole in Fuga, Premio Dedicato Giornata Mondiale della Poesia, Premio Habere Artem, Premio Tre colori, Premio Letterario Nativo del Pizzo, Premio Verrà il mattino e avrà un tuo verso, Premio Tra un fiore colto e l’altro donato. Attestato di Merito con medaglia diamantata al Premio Alda Merini 2020, Segnalazione della giuria al Premio SetArt 2023, Premio della Critica al Premio Emozioni in versi 2023. Moltissime anche le antologie in cui è presente con i suoi versi, tra queste, oltre alle antologie dei suddetti premi, anche le antologie del Premio Città di Monza 2017 e 2018, del Premio Città di Montegrotto Terme 2018 e del Premio I poeti dell’Adda 2018. Presto darà alle stampe il suo terzo libro, "La metamorfosi del cuore".

Dino Campana Dino Campana

Dino Carlo Giuseppe Campana (Marradi, 20 agosto 1885 – Scandicci, 1º marzo 1932) è stato un poeta italiano. Biografia Dino Campana nacque a Marradi, un piccolo paese tosco-romagnolo sito nella provincia di Firenze, il 20 agosto del 1885, figlio di Giovanni Campana, insegnante di scuola elementare, poi direttore didattico, descritto come un uomo per bene ma di carattere debole e remissivo, e di Francesca Luti, detta Fanny, una donna severa e compulsiva, affetta da mania deambulatoria e fervente credente cattolica. La madre era attaccata in modo morboso al figlio Manlio, più giovane di due anni di Dino. Trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno nel paese natìo, ma intorno all’età dei quindici anni gli vengono diagnosticati i primi disturbi nervosi, che – nonostante tutto – non gli impediranno comunque di frequentare i vari cicli di scuola. Frequenta le elementari a Marradi, poi frequenta la terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza. Intraprende gli studi liceali dapprima presso il Liceo Torricelli della stessa città, ed in seguito a Carmagnola (in provincia di Torino), presso il regio liceo Baldessano, dove consegue la maturità nel luglio del 1903. Quando rientra a Marradi, le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, sintomi dei difficili rapporti con la famiglia (soprattutto con la madre) ed il paese natío. Per ovviare alla monotonia delle serate marradesi, specie nella stagione invernale, Dino era solito recarsi a Gerbarola, una località poco distante dal borgo, dove con gli abitanti del luogo trascorreva qualche ora mangiando le caldarroste (la castagna è infatti il frutto tipico di Marradi), comunemente appellate con il nome di bruciati. Questo tipo di svago sembrava avere effetti positivi sui suoi disturbi psichici. Dopo il conseguimento del diploma di maturità, Dino, all’età di diciotto anni, si iscrive, nell’autunno del 1903, presso l’Università di Bologna, al corso di laurea in Chimica pura, e nel gennaio dell’anno successivo entra far parte della scuola per gli ufficiali di complemento di Ravenna. Non riesce, però a superare l’esame per diventare sergente, e viene quindi prosciolto dal servizio ed in seguito congedato. Nel 1905 passa alla Facoltà di Chimica farmaceutica presso l’Università di Firenze, ma dopo pochi mesi il suo trasferimento in Toscana, Campana decide di trasferirsi nuovamente a Bologna. Il poeta espresse il suo “male oscuro” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi ad una vita errabonda: la prima reazione della famiglia, del paese e successivamente anche dell’autorità pubblica, fu quella di considerare le stranezze di Campana come segni lampanti della sua pazzia. Ad ogni sua fuga, che si realizzava con viaggi in paesi stranieri, dove si dedicava ai mestieri più disparati per sostentarsi, seguiva, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico del tempo, così come per le incertezze dei familiari) il ricovero in manicomio. Inoltre, veniva visto con sospetto per i tratti somatici che venivano giudicati “germanici” e per l’impeto con cui discuteva di poesia e filosofia. Internato per la prima volta nel manicomio di Imola (in provincia di Bologna), nel settembre del 1905, ne tenta una fuga già tra il maggio ed il luglio del 1906, per raggiungere la Svizzera e da lì la Francia. Verrà arrestato a Bardonecchia (in provincia di Torino) e di nuovo ricoverato ad Imola. Ne uscirà nel 1907, per l’interessamento della famiglia a cui viene affidato. Risale intorno al 1907 un suo viaggio in Argentina, presso una famiglia di lontani parenti emigrati, caldeggiato dagli stessi genitori per liberarlo dal tanto odiato paese natìo, e probabilmente perché il conflitto con la madre si era fatto ormai insanabile. Con molta certezza, Dino Campana accetta di partire per lasciarsi soprattutto alle spalle l’esperienza del manicomio, e perché si sentiva attratto per la nuova meta. Il viaggio in Sudamerica rappresenta comunque un punto particolarmente oscuro della biografia del poeta marradese: se alcuni infatti arrivarono a chiamarlo come “il poeta dei due mondi”, c’è anche chi, come per esempio Ungaretti, sostiene invece che in Argentina Campana non ci andò neppure. Regna una certa confusione anche sulle varie versioni intorno alla datazione e alle modalità del viaggio e sul tragitto del ritorno. Tra le varie ipotesi, quella più accreditata vede la sua partenza nell’autunno del 1907 da Genova, ed abbia vagabondato per l’Argentina fino alla primavera del 1909, quando ricompare a Marradi, dove viene arrestato. Dopo un breve internamento al San Salvi di Firenze, riparte per un viaggio in Belgio, ma viene nuovamente arrestato a Bruxelles, venendo quindi internato presso la maison de santé di Tournay all’inizio del 1910. A questo punto, si rivolge in cerca di aiuto alla famiglia e viene rimandato in Italia, a Marradi: vive un periodo più tranquillo; tra il 1912 ed il 1913, infatti, si immatricola per la seconda volta presso l’ateneo bolognese, ma soltanto dopo due mesi, chiede il trasferimento per Genova. Durante il soggiorno universitario nel capoluogo emiliano ha però modo di frequentare i gruppi di goliardi, con i quali riesce a stringere dei solidi rapporti d’amicizia, e degli appassionati di letteratura della sua età. Proprio sui fogli pubblicati dai goliardi bolognesi, infatti, escono le sue prime prove poetiche, alcune delle quali verranno in seguito incluse nell’opera maggiore di Campana, i Canti Orfici. I Canti Orfici Nel 1913 Campana si reca a Firenze, presentandosi alla redazione della rivista Lacerba di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, suo lontano parente, a cui consegna il suo manoscritto dal titolo Il più lungo giorno. Non viene però preso in considerazione ed il manoscritto va ben presto perduto (sarà ritrovato solamente sessant’anni dopo, nel 1971, dopo la morte di Soffici, tra le sue carte nella casa di Poggio a Caiano, probabilmente nello stesso posto in cui era stato riposto e subito dimenticato).Dopo qualche mese di attesa irrisposta, Campana scende da Marradi a Firenze per riprendersi il manoscritto. Papini non lo possiede più e lo indirizza da Soffici, che però sostiene di non esserne mai entrato in possesso. Il giovane, la cui mente è già labile, si arrabbia e si dispera, poiché aveva consegnato, ingenuamente, l’unica copia esistente dell’opera. Scrive ed implora insistentemente senza altro risultato che il disprezzo e l’indifferenza di tutto l’ambiente culturale che gravita intorno alle “Giubbe Rosse”. Infine, esasperato, minaccia di venire con il coltello per farsi giustizia dell’"infame" Soffici e dei suoi soci, che definisce “sciacalli”. A proposito del dissidio tra Campana e l’ambiente letterario fiorentino si leggano le parole che Campana scrisse a Papini in una lettera del maggio del 1913: "(...) E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di càncheri che è Firenze e venite qua a Genova: e se siete un uomo d’azione la vita ve lo dirà e se siete artista il mare ve lo dirà. Ma se voi avete un qualsiasi bisogno di creazione non sentite che monta attorno a voi l’energia primordiale di cui inossare i vostri fantasmi? Accademia della Crusca. Accademia dei Lincei. Accademia del mantellaccio: sì, voi siete l’accademia del Mantellaccio; con questo nome ora vi dico in confidenza, io vi chiamo se non rispettate di più l’arte. Mandate via quella redazione che a me sembrano tutti cialtroni. Essi sono ignari del «numero che governa i bei pensieri». La vostra speranza sia fondare l’alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze. Sapete, essendo voi filosofo sono in diritto di dire tutto: del resto vi sarete accorto che sono un’intelligenza superiore alla media. Per finire, il vostro giornale è monotono, molto monotono: l’immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici: come novità: Le cose che fanno la Primavera. In verità vi dico tutte queste cose non fanno la Primavera ma l’inverno. Ma scrivete un po’ a Marinetti che è un ingegno superiore, scrivetegli che vi mandi qualche cosa di buono: e finitela colla critica” Nell’inverno del 1914, persa ormai ogni speranza di recuperare il manoscritto, Campana decide di riscrivere tutto affidandosi alla memoria e alle sue sparse bozze; in pochi mesi, lavorando anche di notte ed a costo di un enorme sforzo mentale, riesce a riscrivere il libro, con numerose modifiche ed aggiunte. Nella primavera dello stesso anno, Campana riesce finalmente a pubblicare, a proprie spese, la raccolta con il nuovo titolo, appunto, di Canti Orfici, in riferimento alla figura mitologica di Orfeo, il primo dei “poeti-musicisti”. Nel 1915 una recensione ai Canti da parte di Renato Fondi, sul Fanfulla della domenica, gli restituisce "il senso della realtà": trascorre quindi l’anno viaggiando senza una meta fissa tra Torino, Domodossola, ancora Firenze. Scoppia la Grande Guerra: Campana viene esonerato dal servizio militare, ufficialmente per problemi di salute fisica, in realtà perché segnalato ormai come malato psichiatrico grave. Nel 1916 ricerca inutilmente un impiego. Scrive a Emilio Cecchi (che sarà, insieme a Giovanni Boine —che comprese da subito l’importanza di Campana, recensendo i Canti Orfici nel 1914 su Plausi e Botte– e a Giuseppe De Robertis, uno dei suoi pochi estimatori) ed inizia con lo scrittore una breve corrispondenza. A Livorno si scontra con il giornalista Athos Gastone Banti, che scrive su di lui un articolo denigratorio sul quotidiano Il Telegrafo: si arriva quasi al duello.Nello stesso anno conosce la scrittrice Sibilla Aleramo, autrice del romanzo Una donna, con la quale instaura un’intensa quanto tumultuosa relazione, che si interromperà all’inizio del 1917, a seguito di un breve incontro nel Natale del 1916, a Marradi. Esistono testimonianze della relazione avvenuta tra Dino e Sibilla nel carteggio pubblicato da Feltrinelli nel 2000: Un viaggio chiamato amore– Lettere 1916-1918. Il carteggio ha inizio con una lettera della Aleramo, datata 10 giugno 1916, nella quale l’autrice esprime la sua ammirazione per i Canti Orfici, dichiarando di esserne stata “incantata e abbagliata insieme”. Sibilla era allora in vacanza nella Villa La Topaia a Borgo San Lorenzo, mentre Campana era in una stazione climatica presso Firenzuola per rimettersi in salute dopo essere stato colpito da una leggera paresi al lato destro del corpo. Ultimi anni e morte Nel 1918, Campana viene internato presso l’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci, nei pressi di Scandicci (in provincia di Firenze). Lo psichiatra Carlo Pariani lo va a trovare per intervistarlo e conferma l’inappellabile diagnosi: ebefrenia, una forma estremamente grave ed incurabile di psicosi schizofrenica; tuttavia il poeta sembra essere a suo agio nel manicomio, vivendo una vita tranquilla e, finalmente, sedentaria.Dino Campana muore in ospedale, sembra per una forma di setticemia, causata dal ferimento con un filo spinato nella zona dello scroto, durante un tentativo di fuga, il 1º marzo del 1932. Il 2 marzo, la salma di Campana viene inumata nel cimitero di San Colombano, a Badia a Settimo, nel territorio di Scandicci, ma nel 1942, su diretto interessamento di Piero Bargellini, viene data alle spoglie del poeta una sepoltura più dignitosa e la salma trova riposo nella cappella sottostante il campanile della chiesa di San Salvatore. Durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto del 1944, i tedeschi, in ritirata, fanno saltare con una carica esplosiva il campanile, distruggendo nel contempo anche la cappella. Nel 1946 le ossa del poeta, in seguito ad una cerimonia alla quale partecipano numerosi intellettuali dell’epoca, tra i quali Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Ottone Rosai, Pratolini ed altri, vengono collocate all’interno della chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo, raggiungendo così la loro dimora attuale. La poetica La poesia di Campana è una poesia nuova nella quale si amalgamano i suoni, i colori e la musica in potenti bagliori. Il verso è indefinito, l’articolazione espressiva in un certo senso monotona ma nel contempo ricca di immagini molto forti di annientamento e purezza. Il titolo allude agli inni orfici, genere letterario attestato nell’antica Grecia tra il II e il III secolo d.C. e caratterizzato da una diversa teogonia rispetto a quella classica. Inoltre le preghiere agli dei (in particolare al dio Protogono) sono caratterizzate dagli scongiuri dal male e dalle sciagure. I temi fondamentali Uno dei temi maggiori di Campana, che si trova già all’inizio dei “Canti Orfici” nelle prime parti in prosa– La notte e Il viaggio e il ritorno– è quello dell’oscurità tra il sogno e la veglia. Gli aggettivi e gli avverbi ritornano con una ripetitiva insistenza come di chi detta durante un sogno, sogno però interrotto da forti trasalimenti (si veda la poesia “l’invetriata”, mirabile spleen baudelairiano). Nella seconda parte– nel notturno di “Genova”, ritornano tutti i miti fondamentali che saranno del Campana successivo: le città portuali, la matrona barbarica, le enormi prostitute, le pianure ventose, la schiava adolescente. Già nella prosa si nota l’uso dell’iterazione, l’uso drammatico dei superlativi, l’effetto d’eco nelle preposizioni, il ricorrere alle parole chiave che creano una forte scenografia. Del Serra ha esaminato le figure ricorrenti in Campana: anastrofi, adnominationes, tmesi anacolutiche e chiasmiche, catacresi, anastrofe con aprosdoketon. L’interpretazione della poesia Nel quindicennio che va dalla sua morte alla fine della seconda guerra mondiale (1932-1945) ed anche in seguito, nel periodo dell’espressionismo e del futurismo, l’interpretazione della poesia di Campana si focalizza sullo spessore della parola apparentemente incontrollata, nascosta in una zona psichica di allucinazione e di rovina. Nei suoi versi, dove vi sono elementi deboli di controllo e di approssimativa scrittura, si avverte – a parere di molti critici – il vitalismo delle avanguardie del primo decennio del XX secolo; dai suoi versi, per la verità, hanno attinto poeti molto differenti tra di loro, come Mario Luzi, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto. Campana e Rimbaud Il destino di Campana è stato avvicinato a quello di Rimbaud. Ma, secondo alcuni, tra Campana e il poeta maledetto il punto di contatto (il bisogno di fuggire, l’idea del viaggio, l’abbandono di un mondo civile estraneo) è affrontato in modo molto diverso. Dove Rimbaud abbandona la letteratura per fuggire in Africa e prestarsi a mestieri avventurosi ed alternativi, come il trafficante d’armi, Campana alla fine dei suoi viaggi, senza una vera meta, trova solamente la follia. E se Rimbaud aveva fatto una scelta, Campana non scelse ma fu sopraffatto dagli eventi che attraversarono la sua vita diventandone una vittima: senza però mai disertare la poesia, come, differentemente, aveva fatto il poeta francese. Campana, fino al suo internamento a Castel Pulci, lotterà per la sua poesia e per una vita che non era mai riuscita a donargli nulla in termini di serenità e pace; e anche la strada dell’amore, il suo incontro con Sibilla Aleramo, si trasformerà in una sconfitta. Come scrive Carlo Bo nel saggio “La nuova poesia: Storia della letteratura italiana– il Novecento” (Garzanti, 2001): Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole ad oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure. Sebbene i canti di Dino Campana affondino ben oltre il simbolismo francese, direttamente nelle radici della nostra terra toscana, Campana guarda al Trecento dantesco, al Cavalcanti al Dante della commedia fino ad arrivare ai canti del Foscolo (Giacomo Leopardi ancora non era stato molto diffuso), ed è toccante l’allusione dantesca con cui Eugenio Montale chiude questa struggente lirica di stampo prettamente biografico (di Dino Campana si evitava di citare per motivi piccoli borghesi la sua vita e i suoi amori travagliati nonché il suo pacifismo antinterventista) e proprio per questo ancor più provocatoria: “fino a quando riverso a terra cadde!”. Dino Campana e l’arte La critica ha spesso indagato e continua ad interrogarsi su quanto vi è di figurativo nell’opera del poeta di Marradi, conosciuto dall’immaginario come il poeta folle e visionario. Nel 1937 Gianfranco Contini scriveva «Campana non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa». Nei Canti Orfici sussistono infatti elementi sia visivi che visionari con numerosi riferimenti alla pittura. Analizzando la funzione che questi aspetti hanno all’interno dell’opera si nota con evidenza come al lato visionario, con riferimento a Leonardo, a De Chirico e all’arte toscana, sia affiancato in perfetta coesione quello visivo che trova le sue allusioni nel futurismo. Pasolini, che aveva riletto con molta attenzione l’opera di Campana, aveva scritto «Particolarmente precisa era la sua cultura pittorica: gli apporti nella sua lingua del gusto cubista e di quello del futurismo figurativo sono impeccabili. Alcune sue brevi poesie-nature morte sono tra le più riuscite e se sono alla "manière de" lo sono con un gusto critico di alta qualità». A proposito poi delle conoscenze leonardesche dell’autore si può leggere, in una lettera del 12 maggio 1914 scritta da Campana a Soffici da Ginevra «Ho trovato alcuni studi, purtroppo tedeschi, di psicoanalisi sessuale di Segantini, Leonardo e altri (in particolare “Sesso e carattere” di Otto Weininger) che contengono cose in Italia inaudite: potrei fargliene un riassunto per Lacerba». La critica Dopo la pubblicazione dei “Canti Orfici” inizia subito la critica con tre articoli che, se pur differenti, danno origine al mito Campana: sulla rivista “La Voce” appare, verso la fine del 1914, l’articolo di Giuseppe De Robertis, sulla “Tribuna” quello di Emilio Cecchi e sulla “Riviera Ligure” quello di Giovanni Boine entrambi del 1915. Il ritrovamento del manoscritto de Il più lungo giorno tra le carte di Soffici fu annunciato sul Corriere della Sera del 17 giugno 1971 da Mario Luzi e ha consentito nuove forme di indagini sul complesso degli scritti campaniani. Citazioni e dediche a Dino Campana CinemaA Dino Campana sono stati dedicati quattro film: Dino Campana, 1974, regia di Marco Moretti Inganni, 1985, regia di Luigi Faccini Il più lungo giorno, 1997, regia di Roberto Riviello Un viaggio chiamato amore, 2002, regia di Michele Placido. La Scomparsa, 2016, regia di Maria Luisa CarrettoRomanziAl viaggio di Dino Campana in Uruguay e in Argentina è dedicato il romanzo di Laura Pariani Questo viaggio chiamavamo amore (Einaudi 2015).PoesiaAlla storia di amore fra Campana a la Aleramo è dedicata la poesia Sibilla del poeta Riccardo Savini, inclusa nella raccolta Nero oro ero (2010). Alla relazione tra Dino Campana e Sibilla Aleramo è dedicata la poesia di Daniele Miglio Dino e Sibilla pubblicata nella raccolta intitolata proprio Dino e Sibilla uscita nel 2011 per Edizioni il Papavero. Nell’opera vi sono più riferimenti alla poetica e al pensiero del Campana.TeatroAlla vicenda di Campana sono stati dedicati la pièce teatrale Quasi un uomo dello scrittore argentino Gabriel Cacho Millet (curatore anche dell’epistolario di Campana dal titolo Le mie lettere sono fatte per essere bruciate), la pièce teatrale “ Dino Campana poeta ” (testo di Andrea Manzi) per la regia di Lorenzo Cicero che debuttò a Marradi in occasione del primo centenario della nascita; il racconto di Antonio Tabucchi Vagabondaggio ne Il gioco del rovescio nell’edizione del 1988 e quattro film: il primo, “Dino Campana”, girato nel 1974 in formato S.8 dal giovane Marco Moretti (vincitore del Premio Nazionale "Dal S.8 al 35mm"), incentrato sulle connessioni tra vita e poesia; l’ultimo è quello di Michele Placido Un viaggio chiamato amore (2002), con Stefano Accorsi nei panni di Campana e Laura Morante in quelli di Sibilla Aleramo. A Dino Campana è stato dedicato lo spettacolo “Nottecampana” con Carlo Monni, Arlo Bigazzi, Orio Odori e Giampiero Bigazzi, da cui sono stati tratti il cd omonimo (2009, Materiali Sonori) e il libro “Nottecampana– Storie di Dino Campana o dell’urgenza della poesia” (2010, Editrice Zona). La vicenda biografica e poetica di Dino Campana viene narrata nella pièce teatrale "La più lunga ora, ricordi di Dino Campana, Poeta, Pazzo" scritta e diretta da Vinicio Marchioni, (2008) con Vinicio Marchioni, Milena Mancini, Ruben Rigillo.MusicaAlla vita di Campana è dedicata la canzone di Massimo Bubola dal titolo “Dino Campana” uscita nel 1997 all’interno del disco Mon trésor. Campana è citato nella Canzone per Alda Merini (1999) di Roberto Vecchioni. Il compositore italiano Lorenzo Signorini ha scritto due brani per voce recitante, arpa e percussioni ispirate ai Canti Orfici di Campana: Le Stelle le Pallide Notturne (2003) e La sera di fiera (2004). Il cantautore fiorentino Massimiliano Larocca ha musicato la poesia di Campana “La petite promenade du poete”, pubblicata nel suo album La breve estate del 2008. Nel 2016 Massimiliano Larocca pubblica il disco “Un mistero di sogni avverati”, nel quale compaiono 13 poesie di Dino Campana musicate integralmente dal cantautore fiorentino. All’album partecipano Riccardo Tesi, Nada, Sacri Cuori, Hugo Race e Cesare Basile “Da lontano un ubriaco canta amore alle persiane” è citato nel brano del 1998 “Ubriaco canta amore” della BandabardòCinemaI versi Fabbricare fabbricare fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare hanno ispirato il titolo del film Preferisco il rumore del mare di Mimmo Calopresti. Nel 2016 è stato realizzato il cortometraggio “L’alluvione ha sommerso”. Il film breve racconta in modo originale la genesi dei Canti Orfici e si lega alla poesia “L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili” di Eugenio Montale, in cui l’autore ricorda la tragica alluvione di Firenze del 1966 durante la quale, tra le tante cose, l’acqua del fiume Arno gli portò via anche una copia del volume campaniano. La regia del film, prodotto da Esecutivi per lo Spettacolo con il supporto del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, di Luca Dal Canto, già autore di un cortometraggio tratto da una poesia di Giorgio Caproni ("Il cappotto di lana", 2012, 53 selezioni e 16 premi) e di un altro film breve ispirato alla figura di Amedeo Modigliani ("Due giorni d’estate", 2014, 29 selezioni e 5 premi). “L’alluvione ha sommerso” è stato scritto da Dino Castrovilli e Giuseppe Giachi. Dino Campana è interpretato dall’attore e performer turco Murat Onol. Opere di Campana Opera Canti Orfici, Tip. Ravagli, Marradi, 1914 Canti Orfici ed altre liriche. Opera completa, prefazione di B. Binazzi, Vallecchi, Firenze, 1928, pp. 166 Canti Orfici, a cura di Enrico Falqui, terza ed., Vallecchi, Firenze, 1941, pp. 210 Canti Orfici e altri scritti, a cura di E. Falqui, Vallecchi, Firenze, 1952, 1960, 1962 Canti Orfici e altri scritti, nota biografica a cura di E. Falqui, nota critica e commento di Silvio Ramat, Vallecchi, Firenze, 1966, pp. 362 Canti Orfici e altri scritti, a cura di Arrigo Bongiorno, introduzione di Carlo Bo, Mondadori, Milano, 1972, pp. 168 Opere e contributi, a cura di E. Falqui, prefazione di Mario Luzi, note di Domenico De Robertis e S. Ramat, 1972 Carteggio con Sibilla Aleramo, a cura di N. Gallo, Vallecchi, Firenze, 1973 Canti Orfici, introduzione e commento e Fiorenza Ceragioli, Vallecchi, Firenze, 1985, pp. 350 Canti Orfici e altre poesie, introduzione e note di N. Bonifazi, Garzanti, Milano, 1989 Canti Orfici, a cura di M. Lunetta, Newton Compton, Roma, 1989 Opere. Canti Orfici. Versi e scritti sparsi pubblicati in vita. Inediti, a cura di S. Vassalli e C. Fini, TEA, Milano, 1989 Canti Orfici, edizione critica a cura di G. Grillo, Vallecchi, Firenze, 1990 Canti Orfici, commento di M. Caronna, Rubbettino, Messina, 1993 Canti Orfici, a cura di R. Ridolfi, introduzione di P. L. Ladron de Guevara, Libreria Chiari, Firenze, 1994 (ristampa anastatica dell’edizione di Marradi, 1914) Canti Orfici, a cura di C. Bene, Bompiani, Milano, 1999 (con Compact disc) ISBN 88-452-4072-X Canti Orfici e altre poesie, a cura di Renato Martinoni, Einaudi, Torino, 2003 Canti Orfici, edizione anastatica a cura di Fabio Barricalla e Andrea Lanzola, con un apocrifo di Marco Ercolani, una nota di Veronica Pesce e un 'plauso’ di Giovanni Boine, Matisklo edizioni, Savona, 2016 Altro Inediti, a cura di E. Falqui, Vallecchi, Firenze, 1942 Taccuino, a cura di Matacotta, Edizioni Amici della Poesia, Fermo, 1949 (poi in Taccuini, edizione critica e commento di F.Ceragioli, Scuola Normale Superiore, Pisa, 1990) Taccuinetto faentino, a cura di D. De Robertis, Vallecchi, Firenze, 1960 Fascicolo marradese inedito del poeta dei “Canti Orfici”, a cura di F. Ravagli, Giunti-Bemporad Marzocco, Firenze, 1972 Il più lungo giorno. I. Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici, II: Il testo critico, a cura di D. De Robertis, prefazione di E. Falqui, Archivi di Arte e Cultura Dell’Età Moderna– Vallecchi, Roma-Firenze, 1973 (Poi su CD-ROM: Vallecchi, Firenze, 2002 Epistolari D. Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, G. S. All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1978 Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931, a cura di G. Cacho Millet, Napoli, 1985 D. Campana– Sibilla Aleramo, Un viaggio chiamato amore, Feltrinelli, Milano, 2003 Dino Campana-Sibilla Aleramo, a cura di Bruna Conti, Feltrinelli, 2000. Da questo carteggio è stato tratto il film Un viaggio chiamato amore (di Michele Placido, 2002) con Stefano Accorsi nel ruolo di Campana e Laura Morante nel ruolo di Sibilla Aleramo. D. Campana, Un po’ del mio sangue– Canti Orfici, Poesie sparse, Canto proletario italo-francese, lettere (1910- 1931), a cura di S. Vassalli, BUR, Milano, 2005 D. Campana, Lettere di un povero diavolo, Carteggio (1903-1931) Con altre testimonianze epistolari su Dino Campana (1903-1998) a cura di Gabriel Cacho Millet. In copertina una foto inedita di Dino, Polistampa, 2011. Traduzioni Dino Campana. Cantos órficos/Canti orfici. Tradução de Gleiton Lentz. Desterro: Edições Nephelibata, 2004. Dino Campana. Chants orphiques. Traduction: Christophe Mileschi. Editeur: Éditions L’Âge d’Homme.février 1997. ISBN 2-8251-0849-9 Fumetti Dino Campana. A jornada de um neurastênico/La giornata di un nevrastenico. Fumetti di Aline Daka e traduzione di Gleiton Lentz. (n.t.) Revista Literária em Tradução, n. 7, set. 2013, pp. 337–348. ISSN 2177-5141 Simone Lucciola, Rocco Lombardi, Campana, contributi di G. Cacho Millet, P. Pianigiani, G. Neri, Guida, 2014, ISBN 978-88-97980-17-9 Pablo Echaurren, Vita disegnata di Dino Campana, Editori del Grifo, Montepulciano 1994. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Campana

Aldo Palazzeschi Aldo Palazzeschi

Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Pietro Vincenzo Giurlani (Firenze, 2 febbraio 1885 – Roma, 17 agosto 1974), è stato uno scrittore e poeta italiano, uno dei padri delle avanguardie storiche. Inizialmente firmò le sue opere col suo vero nome, e dal 1905 adottò come pseudonimo il cognome della nonna materna, appunto Palazzeschi. Dalla seconda attività conseguì una ricca produzione letteraria che gli diede fama di rango nazionale. Biografia Nacque da Alberto Giurlani e Amalia Martinelli in via Guicciardini a Firenze; per volontà del padre frequentò gli studi in ragioneria, dedicandosi poi all’arte e alla scrittura. Inizialmente si dedicò alla recitazione: nel 1902 si iscrisse alla regia scuola di recitazione “Tommaso Salvini”. Nelle compagnie teatrali conobbe anche Gabriellino, figlio di Gabriele D’Annunzio. Fu probabilmente proprio la passione teatrale a far sì che l’artista rinunciasse al suo cognome anagrafico assumendo uno pseudonimo. Infatti, il padre non vedeva di buon occhio il fatto che Palazzeschi si dedicasse alla recitazione, tanto meno se questa attività veniva praticata con il nome di famiglia. Con il tempo, Palazzeschi si staccò dall’attività teatrale per dedicare il suo lavoro alla poesia. Grazie all’appoggio finanziario della famiglia, fu in grado di pubblicare le sue raccolte a proprie spese. Fu così che nel 1905 pubblicò il primo libro di poesie, I cavalli bianchi, per un editore immaginario, Cesare Blanc (che in realtà era il nome del suo gatto) con una sede immaginaria in via Calimala 2, Firenze. Tra i componimenti spiccano Ara Mara Amara e Il Pappagallo. La raccolta avvicinava Palazzeschi al Crepuscolarismo tanto per lo stile quanto per i contenuti. Il libro fu recensito in modo positivo dal poeta Sergio Corazzini con il quale Palazzeschi iniziò una fitta corrispondenza, fino alla precoce morte del Corazzini avvenuta nel 1907. La recensione non ebbe però un seguito e il libro rimase praticamente sconosciuto. Dopo circa un anno, alla prima opera seguì Lanterna, che contiene la poesia Comare Coletta. In questa come nella precedente raccolta, i componimenti di Palazzeschi sono oscuri, fiabeschi e ricchi di simboli poco trasparenti. A dispetto della giovane età dell’artista, ricorre ripetutamente nelle poesie il riferimento alla morte, tema che percorre entrambe le raccolte allo stato latente. Altri motivi ricorrenti sono la malattia e la vecchiaia. Il metro è sempre lo stesso: si tratta del trisillabo, dunque di versi ternari, oppure di versi di 6, 9, 12 o più sillabe. La monotonia del ritmo si coniuga perfettamente alla staticità (spaziale e temporale) che caratterizza i due poemi d’esordio del poeta. Nel 1908 pubblicò, sempre presso l’immaginario editore Cesare Blanc, il suo primo romanzo di stile liberty dal titolo: riflessi, ricco di misticismo e religiosità decadenti per quanto concerne la prima parte, inaspettatamente fondato sul registro comico, della cronaca e del pettegolezzo mondano, per quanto riguarda la seconda.Seguì la terza raccolta Poemi, che avrebbe portato per la prima volta Palazzeschi ad un pubblico più ampio. In questa eterogenea opera ricordiamo Chi sono?, Habel Nasshab, nonché Rio Bo. Rispetto a quanto si poteva osservare nelle prime due raccolte, il tono è stavolta più solare. Alcune delle poesie sono inoltre legate tra di loro da una trama, la quale conferisce ai poemi un certo dinamismo. Il verso ternario e il senario ecc. sono ancora quelli privilegiati, ma il rigido schema metrico viene per la prima volta spezzato, in quanto ricorrono versi di tutte le lunghezze. Il gioco ritmico sul trisillabo viene ironicamente portato alle estreme conseguenze nella poesia della Fontana malata. Pare che con il tempo l’artista si attenga sempre di meno a canoni formali di qualsiasi natura. Anche se durante la prima produzione letteraria Palazzeschi gradiva il fatto di restare più o meno nell’anonimato, stavolta la raccolta non passerà inosservata. Il periodo futurista In seguito alla lettura di Poemi Filippo Tommaso Marinetti rimase entusiasta, convinto della creatività di Palazzeschi e alquanto compiaciuto dell’uso del verso libero: Palazzeschi fu dunque invitato a collaborare alla rivista “Poesia”. Pubblicherà la raccolta di poesie l’Incendiario, dedicato “A F.T. Marinetti anima della nostra fiamma”, preceduto dal Rapporto sulla vittoria futurista di Trieste. Nell’estate il volume venne sequestrato a Trento per gli accesi toni interventisti della prefazione. Nella raccolta si ritrova lo scherzoso componimento E lasciatemi divertire, dove il poeta si immagina di recitare la poesia davanti ad un pubblico costernato e scandalizzato. L’8 ottobre Palazzeschi si reca al Tribunale di Milano dove assiste al processo contro Filippo Tommaso Marinetti, accusato di oltraggio al pudore per il romanzo Mafarka il futurista. Il 1911 è l’anno del romanzo Il codice di Perelà. Nell’autunno del 1912 conobbe Ardengo Soffici e Giovanni Papini, impegnati nella preparazione di una nuova rivista (Lacerba) in polemica con Giuseppe Prezzolini, direttore de La Voce. Nel 1914 seguì il manifesto del Controdolore che era apparso in precedenza su Lacerba. Nel marzo del 1914 raggiunse Papini e Soffici a Parigi. Qui Palazzeschi entrò in contatto con artisti come Apollinaire, Léger, Modigliani, Max Jacob, Umberto Boccioni e Ungaretti, che gli mostrò alcune sue composizioni. Nella stessa occasione, in compagnia di Giovanni Papini, si recò nello studio parigino di Pablo Picasso. Palazzeschi iniziò dunque a collaborare intensivamente con il movimento futurista recandosi spesso a Milano e ripubblicando le sue poesie grazie all’appoggio ricevuto. È sorprendente il fatto che le antologie di poeti futuristi includessero anche diversi dei primi componimenti di Palazzeschi, che per il loro tono sommesso e statico erano in gran parte incompatibili con i toni vitali e dinamici dei marinettiani (soprattutto per quanto riguarda le poesie dei Cavalli bianchi). Il fatto che i futuristi abbiano spesso chiuso un occhio davanti a tutto ciò non fa che confermare che Palazzeschi aveva le carte in regola per arrivare ad un notevole successo. In ogni caso, l’interesse di Palazzeschi per il movimento del futurismo non lo portò mai a ricambiare pienamente l’entusiasmo che il gruppo nutriva nei suoi confronti, nonostante fu certamente abbacinato e sconvolto dalla vitalità straordinaria di Marinetti. Il 3 settembre del 1914 si trovò a Roma, in Piazza San Pietro, dove ebbe modo di ascoltare il messaggio di pace del nuovo papa, Benedetto XV. Alla vigilia della grande guerra, i nodi vennero al pettine: Palazzeschi si dichiarò neutrale giudicando retorico l’acceso interventismo che veniva propagandato dal movimento futurista dei marinettiani: Al momento della dichiarazione di guerra si riavvicinò alle posizioni dei compagni, consapevole della necessità del conflitto. Esordirà, infatti, su Lacerba del 22 maggio 1915 scrivendo: “Evviva questa guerra!”.In seguito, si sarebbe dedicato con profitto alla scrittura in prosa. Per quanto riguarda la poesia, alla vigilia della guerra Palazzeschi aveva ormai dato il meglio di sé. Si avvicinò all’ambiente de La Voce di Giuseppe De Robertis e iniziò a collaborare per la rivista. Richiamo alle armi e gli anni del fascismo Durante l’estate del 1916, pur essendo stato riformato alla visita militare, venne richiamato il 16 luglio e il 24 agosto alle armi come soldato del genio. Fu per poco tempo al fronte e in seguito di stanza a Firenze, a Roma e a Tivoli. Si ritrovano i ricordi di quel periodo nei suoi bozzetti di Vita militare e nel libro autobiografico Due imperi... mancati (1920). Durante gli anni del fascismo, Palazzeschi non partecipò alla cultura ufficiale nonostante gli sforzi intrapresi in questo senso da Filippo Tommaso Marinetti; compì qualche viaggio a Parigi e dal 1926 collaborò al Corriere della Sera. Nel 1921 pubblicò il suo primo libro di racconti, presso Vallecchi, Il re bello; nel 1926 uno “scherzo” iniziato nel 1912 dal titolo La piramide. Nel 1929 trovarono spazio su vari giornali e riviste, fra cui Pègaso, Pan e Il Selvaggio, novelle, saggi e ricordi. Fra il 1930 e il 1931 si recò più volte a Parigi dove ebbe modo di conoscere Filippo de Pisis, Georges Braque e Henri Matisse. Nel 1930 venne stampata dall’editore Preda a Milano l’edizione definitiva delle Poesie risistemate con alcune variazioni; frequentò i coniugi Prezzolini e conobbe Pirandello a casa Crémieux; nel 1931 pubblicò altri racconti su Pègaso e sulla Gazzetta del Popolo; apparve nella «Collezione Romantica» Mondadori, la sua traduzione di Tartarino di Tarascona di Alphonse Daudet. Nel 1932, abbandonate le veneri della stravaganza e dell’iconoclastica di matrice futurista, si riconciliò con le forme tradizionali pubblicando, su proposta di Ugo Ojetti, Stampe dell’Ottocento, prose di ricordi, che gli valse una menzione onorevole nell’assegnazione del Premio Mussolini. Nel 1933 collaborò con alcuni racconti alla terza pagina del settimanale Quadrivio di Telesio Interlandi. Nel 1934 fece parte della giuria del premio di poesia della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia e con Ungaretti e Riccardo Bacchelli della giuria dei Littoriali per la gioventù tenutisi a Firenze. Uscì presso Vallecchi il romanzo Sorelle Materassi, anticipato a puntate sulla Nuova Antologia diretta da Luigi Federzoni. Il romanzo, uscito in volume, fu recensito da Antonio Baldini sulla rivista Omnibus di Leo Longanesi: Per quanto concerne Palazzeschi, sempre schivo a rilasciare interviste, in occasione dell’uscita delle Sorelle Materassi ne concesse una alla Gazzetta del Popolo. Dopo aver riassunto la trama del romanzo, dichiarò: Nel 1937 collaborò con alcune novelle alla rivista Omnibus su invito del direttore Longanesi. Il 1937 fu altresì l’anno de Il palio dei buffi, seconda raccolta di novelle. Anni romani Il 13 agosto 1938 morì la madre e nell’ottobre del 1940 il padre di Palazzeschi. Il 15 ottobre 1939 scrisse sulla nuova rivista di Curzio Malaparte, Prospettive. A marzo è in Piazza San Pietro in occasione dell’elezione di Papa Pio XII. Nel 1941, si trasferì a Roma dove abiterà fino alla morte. Nello stesso anno, il racconto Don Giovanni e l’etèra, incluso nelle Stampe dell’800, appare tradotto in tedesco sulla rivista Europäische Revue del principe Karl Anton Rohan. Del 1945 è un altro libro autobiografico Tre imperi... mancati. Nel 1948 ottenne, ex aequo con Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, il premio Viareggio per il romanzo I fratelli Cuccoli. . Tra il 1950 e il 1951, per dieci mesi, curò la rubrica cinematografica del settimanale Epoca. Nel 1953 presso Vallecchi pubblicò il romanzo Roma, per il quale Palazzeschi ricevette il Premio Marzotto. Nel 1954 uscirono nuove edizioni di Sorelle Materassi e de Il codice di Perelà, con il titolo L’uomo di fumo. A dicembre dello stesso anno fece parte con Marino Moretti della giuria del premio Alessandro Manzoni dell’Unione Editori Cattolici Italiani. Nel 1955 pubblicò presso Scheiwiller la raccolta di poesie Viaggio sentimentale. Collaborò al Corriere della Sera e a La Fiera Letteraria. Nel 1957 gli venne assegnato dall’Accademia Nazionale dei Lincei il premio Feltrinelli per la letteratura. Nel 1960 l’Università degli Studi di Padova gli conferì la laurea in lettere honoris causa. Nel 1964 pubblicò il libro autobiografico Il piacere della memoria. In agosto gli venne annunciato il conferimento da parte dell’ex sovrano Umberto II dell’Ordine civile di Savoia, che ricevette ufficialmente a Cascais il 15 settembre.Nel febbraio del 1965 presenziò alla conferenza “Con Gozzano e altri poeti nel salotto di Nonna Speranza” organizzata da Nino Tripodi. Nello stesso anno presiedette le giurie di vari premi tra cui quella del premio Nazionale d’arte Ardengo Soffici, a Prato, e quelle letterarie del premio Fiuggi, del premio Settembrini-Mestre e del premio Stradanova. Nel 1966 diede alle stampe gli Schizzi italofrancesi (All’insegna del pesce d’oro, Milano). In aprile uscì presso Mondadori la raccolta di novelle Il buffo integrale, che ottenne il premio Gabriele D’Annunzio. Nel 1967 le Nuovedizioni Enrico Vallecchi pubblicarono la raccolta di prose Ieri oggi e... non domani. Da Mondadori uscì in maggio il romanzo Il Doge. Nell’aprile del 1968 uscì da Mondadori la raccolta Cuor mio, in cui sono contenute le liriche composte a partire dal secondo dopoguerra. Nel 1969 fu l’anno del romanzo Stefanino (1969). Nel 1971 uscirono presso Mondadori il nuovo romanzo Storia di un’amicizia e l’antologia Poesie, a cura di Sergio Antonielli. A primavera ricevette dal sindaco di Roma il Premio della Simpatia, ideato dall’amico Domenico Pertica. Nel 1972 venne nominato membro onorario dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. A febbraio l’Assemblea generale dei Soci dell’Accademia pisana dell’Arte-Sodalizio dell’Ussero lo nominò socio onorario. Nel mese di giugno apparve su Il Giornale d’Italia un suo articolo intitolato La simpatia. Supervisionò inoltre alla produzione dello sceneggiato televisivo Sorelle Materassi, messo in onda dalla Rai sempre nel 1972. Questo evento mediale fu di vasta portata: l’opera dell’artista, giunto ormai a tarda età, fece il suo ingresso in milioni di focolai domestici e diede un contributo tutt’altro che trascurabile alla fama del Palazzeschi romanziere. Lo stesso anno uscì nella collana Mondadori Lo Specchio la raccolta di poesie Via delle cento stelle, a proposito della quale Palazzeschi dichiarerà: Nel 1973 ricevette numerosi premi e riconoscimenti: il Perseo d’oro del C.O.F.A.T. 1973-1974, l’Ulivo d’oro per la poesia, la Grand Aigle d’or de la Ville de Nice al Festival International du Livre. In marzo il presidente Andreotti lo informò della nomina a componente della Commissione per il conferimento dei Premi della «Penna d’Oro» e del «Libro d’oro». Collaborò con Paolo Prestigiacomo al suo antico carteggio con Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato in seguito nel 1978. Un corteo di personaggi passa per la sua abitazione romana: riceve continuamente Prezzolini e sua moglie da Lugano e, da Venezia, il conte Cini e la contessa.; a Vittorio Cini l’autore si sarebbe ispirato per la figura del doge nel romanzo omonimo del 1967.Quando si stavano preparando i festeggiamenti per i suoi novant’anni e le riviste Il Verri e Galleria gli dedicavano un numero monografico, lo scrittore, per gravi condizioni seguite a un ascesso dentario trascurato, morì all’ospedale Fatebenefratelli, il 17 agosto alle 11. Poetica Originalità della sua poesia Palazzeschi, anche se nelle varie fasi della sua lunga attività di scrittore si è accostato ai movimenti contemporanei, ha sempre mantenuto la sua individualità e una particolare fisionomia. Anche quando egli, in un primo tempo, riprende i motivi crepuscolari e, in seguito, quelli futuristi, mantiene la sua originalità. I temi crepuscolari da lui ripresi sono infatti privi di languori eccessivi: se Palazzeschi ne ricalca certe situazioni, sostituisce però lo scherzo al sospiro e contamina il tono elegiaco con la presa in giro che conferisce alle sue liriche il carattere di divertimento.Analoghe considerazioni valgono per l’adesione di Palazzeschi ad altre correnti. Lo scrittore seguirà come detto per breve tempo il movimento futurista e nel dichiarare ufficialmente sulla rivista Lacerba, nel 1914, che non si considerava più un futurista dichiarerà apertamente la sua vocazione al gioco della fantasia e al riso: «bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride [...] Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente...». Questo atteggiamento fa sì che in Palazzeschi si ritrovino i temi e i toni più vari: dall’immagine più onirica alla risata beffarda, dal divertimento funambolesco alla canzonatura che non esclude, comunque, un che di affettuoso e completamente estraneo al futurismo. Sempre in tema di futurismo, si pensi all’originalità di liriche come Pizzicheria dove viene introdotto il dialogo tra il pizzicagnolo e il cliente. Per quanto riguarda La passeggiata, questa poesia non è altro che l’enumerazione delle diverse immagini, delle scritte pubblicitarie e dei numeri civici che l’io poetico immagina di osservare durante la passeggiata tra le vie di una città, passeggiata che ha dunque la funzione di una cornice. Con questi stravolgimenti, Palazzeschi sembra seguire i futuristi dei quali però non interessa né l’esaltazione del movimento, né l’attivismo politico, ma principalmente la distruzione delle tradizionali strutture. Narrativa Tutte queste posizioni sono facilmente riscontrabili nella sua narrativa che avrà, nell’opera di Palazzeschi, una parte prevalente. Una notevole prova viene data dall’autore già nel 1911 con Il codice di Perelà che è la storia di un inconsistente omino di fumo capitato nel nostro mondo. È questa una favola allegorica dove il divertimento non rimane solamente fantastico ma lascia il posto per l’irrisione, di matrice nietzscheana, dei valori codificati della nostra società che, visti attraverso il modo di vivere anticonformista di Perelà, risultano essere una denuncia della loro provvisorietà e credibilità. Anche nell’opera successiva, Piramide (scritta subito dopo ma pubblicata nel 1926) rimaniamo ancora nel campo della fantasticheria umoristica, mentre nelle Stampe dell’Ottocento del 1932 e in Sorelle Materassi del 1934, il tono cambia decisamente. Vengono in esse adottati moduli narrativi più tradizionali che richiamano, nella rappresentazione degli ambienti e dei personaggi, alla forma del bozzettismo toscano di fine Ottocento e una più soffusa interpretazione del programmatico E lasciatemi divertire che si avvia a toni di umana malinconia e comprensione. Su posizioni più tradizionali, si pone dunque la produzione successiva alla fase futurista. È il periodo del cosiddetto “ritorno all’ordine”, che viene generalmente distinto in due fasi: la prima è quella degli anni Trenta, coincidente con il romanzo Sorelle Materassi e le novelle Il Palio dei buffi; la seconda si distende lungo gli anni Quaranta e Cinquanta ed è rappresentata dai romanzi I fratelli Cuccoli e Roma. Nella prima la tradizione letteraria è accettata, ma sono evidenti elementi del programmatico E lasciatemi divertire; nella seconda il canone tradizionale è perfettamente rispettato e la carica dissacrante è totalmente assente. Chiudono la stagione narrativa dell’autore tre romanzi brevi: Il doge (1967), Stefanino (1969) e Storia di un’amicizia (1971), che presentano, soprattutto i primi due, un recupero delle strutture sperimentali riconducibili alla stagione del futurismo. Palazzeschi si diletta nel mettere alla berlina il conformismo della massa, la quale tende costantemente ad erigere feticci e idoli. I bersagli del Doge e di Stefanino sono in definitiva la credulità e la stupidità della folla. Del resto Palazzeschi, negli anni di stesura del Doge e di Stefanino – come si evince dal carteggio con lo scrittore Moretti – andava sempre più nutrendo diffidenza nei confronti della piccola e media borghesia, responsabile della congerie politica venuta ad affermarsi in quel frangente storico. Il doge è da considerarsi– stando alle parole dell’autore– anche come una riflessione sul mistero dell’esistenza: Saggistica Nel 1920 pubblica Due imperi ...mancati un pamphlet polemico sulla Prima guerra mondiale, accolto paradossalmente in senso favorevole da interventisti della prima ora come Ardengo Soffici e Giovanni Papini. In Due imperi... mancati Palazzeschi, accanto alle pagine dedicate alla vita in caserma, muove contro quanti hanno causato il conflitto, contrapponendo loro il pacifismo di Romain Rolland e Karl Marx ma al contempo anela a una società, decisamente utopica, una sorta di età dell’oro, in cui ogni uomo possa vivere, senza guerre, in pace, del suo lavoro. In conclusione affida i caduti del conflitto alla Madonna, recuperando la preghiera alla Vergine del Canto XXXIII del Paradiso.Del 1945 è Tre imperi ...mancati, seguito ideale del saggio precedente e testimonianza polemica ma anche melanconica della seconda guerra mondiale, in cui Palazzeschi ripercorre gli anni del fascismo e del secondo conflitto mondiale; «un libro conservatore, avverso all’economicismo marxista e aneddotico», ma fortemente critico nei confronti della dittatura appena trascorsa. Coerenza delle sue opere Una delle qualità che si evidenziano nella produzione di Palazzeschi è la coerenza del suo lavoro e il legame che esiste tra un’opera e l’altra. Pertanto anche in queste opere non si cade mai nel sentimentalismo elegiaco perché spesso le pagine sono percorse da sprazzi di riso. Ed è appunto questo amalgamarsi di sorriso e pietà, che non rinnega la vocazione al divertimento. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Palazzeschi

Giovanni Giudici Giovanni Giudici

Giovanni Giudici (Porto Venere, 26 giugno 1924 – La Spezia, 24 maggio 2011) è stato un poeta e giornalista italiano. Cresciuto nel borgo marinaro di Le Grazie vicino a Porto Venere, è stato un aderente alla linea della poesia anti-novecentesca. Biografia Figlio di Gino Giudici, impiegato presso vari enti privati, e Alberta Giuseppina Portunato, maestra elementare nella scuola dell’isola Palmaria e poi in quella delle Grazie, il poeta è il quartogenito e l’unico sopravvissuto di cinque figli tutti morti poco dopo la nascita o al momento del parto. Gli anni dell’infanzia e i primi studi Alle Grazie, dove il nonno paterno, discendente da una famiglia di piccoli possidenti di Casale Marittimo (Pisa), esercita la professione di farmacista, abitano anche i nonni materni e Giovanni trascorre i primi anni dell’infanzia nel paese natio tra la casa dei genitori e quella dei nonni ricevendo dalla madre una seria educazione cattolica. La morte della madre, avvenuta l’8 novembre 1927 per una eclampsia da parto, lascia in Giovanni una “voragine di privazione” che anziché colmarsi si allargherà col trascorrere degli anni. Nel 1928, il padre Gino si risposa con Clotilte Carpena, dalla quale avrà cinque figli, e nel 1929 si trasferisce a Cadimare aumentando così la sofferenza di Giovanni che deve allontanarsi dalle Grazie e dai nonni. A Cadimare egli frequenta presso un Istituto di suore l’asilo e, avendogli il padre fatto saltare una classe, la seconda elementare, ma verso la fine degli anni trenta il padre si trasferisce con i suoi familiari alla Spezia e sarà questo un altro periodo difficile per Giovanni che risentirà della ristrettezza economica della famiglia e dei ricatti sentimentali ai quali lo sottopongono, pur a fin di bene, i nonni paterni e i parenti della madre che lo vorrebbero in affido. Alle Grazie Giovanni riuscirà a tornare nel 1932 e a frequentare per due trimestri la quarta elementare fino a quando il padre Gino, impiegato presso l’Istituto ISTAT e in seguito al Ministero della guerra, si trasferisce, nel 1933, a Roma e, in attesa di un definitivo alloggio, colloca il figlio presso il Pontificio Collegio Pio X dove Giovanni rimane fino alla primavera del 1935 terminando la quinta elementare e la prima ginnasiale. Durante l’estate però gli è concesso di trascorrere le vacanze alla Grazie presso le famiglie dei nonni e della zia materna Angela. Gli studi superiori Nel 1935, quando la famiglia ottiene l’assegnazione di un appartamento dell’Istituto Case Popolari, il padre gli fa lasciare il collegio ed egli prosegue gli studi presso l’Istituto Quinto Orazio Flacco a Monte Sacro.Risalgono a questo periodo i primi tentativi poetici tra i quali rimane un sonetto, ispirato al monumento che si trova sul piazzale di Porta Pia, intitolato Il bersagliere. La famiglia intanto si trova sempre in gravi difficoltà economiche e Giovanni riceverà in dono i libri scolastici da alcune sue insegnanti tra le quali Letizia Falcone che diventerà in seguito nota ispanista e traduttrice di Cervantes e di Teresa di Lisieux. Scrive in questo periodo altri componimenti poetici, sempre in forma di sonetto, dedicati ad una compagna di scuola. Risalgono a questo periodo le sue numerose letture extrascolastiche che, non avendo i mezzi per comprarsi i libri, compie prendendoli in prestito preso la Biblioteca comunale. Nel 1939 si iscrive al Liceo classico statale Giulio Cesare presso la sezione staccata di Monte Sacro e al termine della seconda liceo, con la media di otto decimi, può affrontare direttamente l’esame di maturità e per pagarsi le lezioni di matematica dà, a sua volta, lezioni di greco e latino. L’università e i primi racconti Su insistenza del padre, nel 1941, si iscrive alla facoltà di Medicina ma è attirato da quella di Lettere dove si reca spesso ad ascoltare le lezioni. Proprio alla fine del 1941 risalgono i primi contatti con i militanti dell’antifascismo a Monte Sacro e in seguito, sempre più frequenti, quelli con i gruppi romani e del PCI. Nella primavera del 1942 decide di cambiare il corso di studi e si iscrive alla Facoltà di Lettere dove frequenta i corsi di famosi maestri come Giulio Bertoni di Filologia romanza, Alfredo Schiaffini di Storia delle Lingue, Gino Funaioli di Letteratura latina, Natalino Sapegno di Letteratura italiana, Antonino Pagliaro di Glottologia, Giuseppe Cardinali di Storia romana, Pietro Paolo Trompeo di lingua e letteratura francese, Gennaro Perrotta di letteratura greca. Si ampliano le sue conoscenze letterarie e le letture diventano più varie. Risale a questo periodo, come il poeta stesso ci racconta, le letture di Rilke e di Campana, la lettura assidua della rivista Primato di Bottai e stringe amicizia con un suo compagno di studi, Ottiero Ottieri. Risalgono al 1943 i suoi primi racconti e un gruppo di poesie che gli vengono però rifiutate. Legge una poesia di Sereni sul settimanale Tempo edito da Mondadori e, sempre sullo stesso settimanale qualche poesia di Ungaretti, Quasimodo, Penna e Gatto. Il periodo della guerra Nel periodo della guerra, per non essere richiamato al servizio militare, trova rifugio presso la casa di un amico dove rimane nascosto e dopo l’8 settembre partecipa, all’interno del quartiere dove abita, all’attività clandestina del Partito d’Azione e fonda, insieme ad un gruppo, il giornale “La nostra lotta”. Il 6 gennaio 1944 riesce ad entrare nella Guardia di Finanza della Città aperta di Roma dove presta servizio per sette mesi e il 4 giugno assiste alla presa di Roma da parte dell’esercito statunitense. Riprende intanto gli studi interrotti e per aiutare finanziariamente la famiglia dà lezioni private. Conosce in questo periodo il sacerdote Ernesto Buonaiuti che era stato privato dell’insegnamento universitario per non aver voluto giurare fedeltà al regime fascista che gli offre di lavorare per qualche tempo per lui scrivendo a macchina sotto dettatura. Risale al luglio del 1944 il racconto L’odore d’acetilene e verso la fine dell’anno trova lavoro come garzone di cucina presso la caserma della Royal Air Force inglese ma presto, dietro raccomandazione si inserisce al Ministero dell’interno e viene assegnato alla Questura di Roma dove lavora per un po’ di tempo all’ufficio stampa. Pubblica nel frattempo, sulla rivista "1945" diretta dal Buonaiuti, due articoli sul pensiero di Charles Péguy e riesce, con i primi guadagni, ad acquistare Il Canzoniere di Saba. Continua a cimentarsi con il racconto e scrive Il colore blu della morte, Uomini a gara oltre ad alcune poesie e il 1º agosto dibatte una tesi di laurea, con il relatore Pietro Paolo Trompeo, in Letteratura francese sul poeta francese Anatole France, anche se avrebbe desiderato lavorare su Charles Baudelaire, e prima della fine dell’anno entra a far parte del PSIUP come segretario del circolo giovanile di Monte Sacro. Gli anni del dopoguerra Nella primavera del 1946 riesce a trascorrere un periodo di vacanza a Monte Sacro che sente sempre di più essere il paese che maggiormente ama. Cresce in lui, oltre il bisogno di poesia, il desiderio di mettere ordine nella sua vita, come avere un lavoro stabile, una famiglia e una casa, ma la sua situazione economica non glielo permette ancora. Continua a svolgere attività politica nello PSIUP e comincia a compiere i primi viaggi a Milano e a Torino, dove fa diverse importanti conoscenze e sul numero speciale del 2 giugno di “Rivoluzione Socialista”, il supplemento settimanale dell’"Avanti!", esce la sua prima poesia edita dal titolo Compagno, qualche volta. L’attività di giornalista Inizia nel 1947 la sua attività di cronista presso il quotidiano "L’Umanità" di Roma, venendo assunto come giornalista professionista il 1º gennaio 1948, col ruolo di capocronista. Alla chiusura del giornale, il 31 luglio dello stesso anno, Giudici passa alla redazione de "L’Umanità" di Milano. Durante questo periodo conosce Mario Picchi con il quale stringe una salda amicizia. Nel dicembre del 1947 ha l’occasione di ascoltare Thomas Stearns Eliot che legge i suoi versi nell’aula magna del Collegio Romano, avvenimento che lo riempie di entusiasmo. Nel frattempo ottiene l’abilitazione all’insegnamento nella scuola media. Nel 1949, grazie ad Alberto Frattini che aveva conosciuto ai tempi dell’università, riesce a pubblicare due liriche (Là dove gli angeli cantano, Sola caduta a infrangere) e un articolo su Saba sulla rivista Accademia e il 14 settembre su Il cittadino. Settimanale dell’Italia socialista propone un’inchiesta che riguarda i viaggi all’estero degli italiani. Negli anni collabora con vari giornali di sinistra, come l’Espresso, l’Unità e Rinascita. Legge in questo periodo l’opera di Piero Jahier (Ragazzo), che conoscerà a Milano nel 1963, e ne rimane molto colpito. Gli si offrono intanto tre proposte di lavoro, l’insegnamento in una scuola media di Velletri, l’assunzione nella redazione di “Paese Sera” e un impiego presso gli uffici romani dell’USIS (United States Information Service) che dipendono dall’ambasciata statunitense. Egli sceglie quest’ultimo, anche perché meglio retribuito, ed inizia l’attività come redattore del bollettino quotidiano da inviare ai vari giornali. Opere * Fiorì d’improvviso, Roma, Edizioni del Canzoniere, 1953. * La stazione di Pisa e altre poesie, Urbino, Istituto Statale d’Arte, 1955. * L’intelligenza col nemico, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1957. * L’educazione cattolica (1962-1963), Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1963. * La vita in versi, Milano, Mondadori, 1965. * Autobiologia, Milano, Mondadori, 1969. * O Beatrice, Milano, Mondadori, 1972. * Poesie scelte (1957-1974), a cura di Fernando Bandini, Milano, Mondadori, 1975. * Il male dei creditori, Milano, Mondadori, 1977. * Il ristorante dei morti, Milano, Mondadori, 1981. * Lume dei tuoi misteri, Milano, Mondadori, 1984. * Salutz (1984-1986), Torino, Einaudi, 1986. * Prove del teatro, Torino, Einaudi, 1989. * Frau Doktor, Milano, Mondadori, 1989. * Fortezza, Torino, Milano, Mondadori, 1990. * Poesie (1953-1990), Milano, Garzanti, 1991 (2 voll.). * Quanto spera di campare Giovanni, Milano, Garzanti, 1993. * Un poeta del golfo, a cura di Carlo Di Alesio, Milano, Longanesi, 1995. * Empie stelle, Milano, Garzanti, 1996. * Eresia della Sera, Milano, Garzanti, 1999. * I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, Milano, Mondadori, 2000 (I Meridiani). * Dedicato ai pompieri di New York da 'Poesia’, 2001. * Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002, Casette d’Ete, Grafiche Fioroni, 2004. * Prove di vita in versi. Il primo Giudici da 'Istmi. Tracce di vita letteraria’, 2012. * Tutte le poesie, introduzione di Maurizio Cucchi, Milano, Mondadori, 2014. Saggi * La letteratura verso Hiroshima e altri scritti (1959-1975), Roma, Editori Riuniti, 1976. * La dama non cercata. Poetica e letteratura (1968-1984), Milano, Mondadori, 1985. * Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Roma, Edizioni e/o, 1992. * Per forza e per amore, Milano, Garzanti, 1996. Traduzioni * Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (1955-1980), Torino, Einaudi, 1982. * A una casa non sua. Nuovi versi tradotti (1955-1995), Milano, Mondadori, 1997. * Eugenio Onieghin di Aleksandr S. Puskin in versi italiani, Milano, Garzanti, 1999. * Vaga lingua strana. Dai versi tradotti, Milano, Garzanti, 2003. Altri progetti * Wikiquote contiene citazioni di o su Giovanni Giudici * Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giovanni Giudici Collegamenti esterni * Giovanni Giudici, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana. * Pagina dedicata a Giovanni Giudici da Scrittori in corso, su scrittorincorso.net. * Rodolfo Zucco, Itinerari di Spina, in Atti di INCONTROTESTO. Ciclo di incontri su e con scrittori del Novecento e contemporanei, Siena, ottobre-novembre 2011, Pisa, Pacini editore, 2011, pp. 77–83. Damiano Frasca, Vite ordinarie. Giudici e il crepuscolarismo, in Atti di INCONTROTESTO. Ciclo di incontri su e con scrittori del Novecento e contemporanei, Siena, ottobre-novembre 2011, Pisa, Pacini editore, 2011, pp. 85–91. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Giudici

Alfonso Gatto Alfonso Gatto

Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976) è stato un poeta e scrittore italiano. Biografia Nacque a Salerno il 17 luglio del 1909. La sua infanzia e la sua adolescenza furono piuttosto travagliate. Fratello del pittore Alessandro Gatto, compì i primi studi al liceo classico Torquato Tasso della sua città natale, mostrandosi portato per le materie letterarie, in particolare l’italiano, e poco incline alla matematica. Al liceo scoprì la propria passione per la poesia e la letteratura. Nel 1926 si iscrisse all’Università di Napoli che dovette tuttavia abbandonare qualche anno dopo a causa di difficoltà economiche. Sposò la figlia del suo professore di matematica, Agnese Jole Turco, con la quale, all’età di 21 anni, fuggì a Milano. Ebbero due figlie, Marina e Paola. Nel capoluogo lombardo, dove risiedette dal maggio del 1934, tra i suoi amici più assidui vi furono Cesare Zavattini, Alessandro Tofanelli, Leonardo Sinisgalli, Orazio Napoli e Domenico Cantatore, coi quali frequentava i caffè cittadini. La sua vita fu piuttosto irrequieta e movimentata, anche dal punto di vista lavorativo: dapprima commesso di libreria, poi istitutore di collegio, correttore di bozze, giornalista, insegnante. Nonostante nel 1935 avesse partecipato ai Littoriali della cultura e dell’arte dei Gruppi universitari fascisti, già nel 1936 fu arrestato per antifascismo e trascorse sei mesi nel carcere di San Vittore a Milano. Durante quegli anni Gatto collaborò ai più innovatori periodici e riviste di cultura letteraria (Italia letteraria, Rivista Letteratura, Circoli, Primato, Ruota). Nel 1938, con la collaborazione di Vasco Pratolini, fondò la rivista Campo di Marte per commissione dell’editore Vallecchi, ma il periodico durò un solo anno. Fu comunque questa una esperienza significativa per il poeta, che ebbe modo di cimentarsi nella letteratura militante di maggior impegno. Campo di Marte (il cui primo numero uscì il 1º agosto 1938) era nato come quindicinale di azione letteraria e artistica, con l’intento di educare il pubblico a comprendere la produzione artistica in tutti i suoi generi. La rivista si ricollegava al cosiddetto ermetismo fiorentino. Nel 1941 Gatto ricevette la nomina a ordinario di Letteratura italiana, per “chiara fama”, presso il Liceo Artistico di Bologna e iniziò pure una collaborazione con la rivista Primato di Giuseppe Bottai, sulla quale pubblicò con continuità poesie e recensioni letterarie. Nel 1944, iscrittosi al PCI, iniziò a collaborare a Rinascita e, dopo la liberazione di Milano, nell’aprile 1945, all’Unità.Fu poi inviato speciale de L’Unità assumendo una posizione di primo piano nella letteratura di ispirazione comunista. Nel 1951 si dimise dal partito e diventò un comunista “dissidente”. Il poeta, nel 1946, incontrerà la donna più importante della sua vita, la pittrice triestina Graziana Pentich per la quale abbandonò la moglie e le figlie e da cui ebbe due figli, Teodoro e Leone. La vita del poeta sarà segnata, nel 1963, dal dolore per la scomparsa di Teodoro, mentre Leone morirà soltanto tre mesi dopo la morte del poeta. L’8 marzo del 1976 Gatto si trovava a Grosseto e si mise in viaggio lungo l’Aurelia diretto a Roma, a bordo di una Mini Minor alla cui guida si trovava Paola Maria Minucci. L’auto finì fuori strada nei pressi della Torba di Capalbio e il poeta fu trasportato d’urgenza a Orbetello dove, per via delle condizioni ormai critiche, si decise di caricarlo sull’ambulanza in direzione dell’Ospedale di Grosseto. Alfonso Gatto spirò alle ore 16:10 mentre si trovava ancora a Orbetello. È sepolto nel cimitero di Salerno. Sulla sua tomba, che ha un macigno per lastrone, è inciso il commiato funebre dell’amico Eugenio Montale: Formazione e poetica L’ermetismo riconosce in Alfonso Gatto uno dei più accesi tra i suoi protagonisti. Non si sa molto dei suoi primi anni a Salerno, che tanta importanza hanno senza dubbio avuto nella sua formazione, come pure si ignorano le sue prime letture, i suoi primi incontri (tra gli altri, con il critico letterario Francesco Bruno, che lesse per primo e ordinò le sue poesie), le sue amicizie. Le notizie biografiche sono scarse e sono le solite: gli studi, l’arrivo all’Università non terminata, la vita irrequieta, i vari lavori intrapresi. Fa eccezione la notizia dell’uscita del suo primo volumetto nel 1932, Isola, nel quale i maggiori lettori del tempo riconobbero subito il segno di una voce nuova e vera. Quando nel 1932 Giuseppe Ungaretti pubblica Sentimento del tempo, Gatto, appena nato alla poesia, viene subito inserito nel capitolo di quel momento. Con Isola, Gatto inizia la sua esistenza di poeta e un discorso che si concluderà solamente con la sua tragica morte quarantaquattro anni dopo. Isola è il testo decisivo per il costituirsi di una “grammatica ermetica” che verrà definita dal poeta stesso come ricerca di «assolutezza naturale». Il linguaggio è rarefatto e senza tempo, allusivo, tipico di una poetica dell’"assenza" e dello spazio vuoto, ricco di motivi melodici. E saranno proprio il senso dello spazio e l’abbandono alla melodia gli elementi costanti di Isola, così come più tardi delle altre raccolte di poesie. Ad Isola segue Morto ai paesi, una quarantina di componimenti in versi. Non si evincono grandi differenze tematiche e stilistiche rispetto ad Isola, anzi vi è una comune evocazione di immagini plastiche, idilliache ed oniriche, e risalta il topos letterario della memoria. Alcune atmosfere e scelte lessicali suggeriscono stilemi petrarcheschi. Non è un caso che Giovanni Pozzi, ne La poesia italiana del Novecento, abbia incluso Alfonso Gatto tra i cosiddetti petrarchisti dell’ermetismo, data l’influenza del poeta proto-umanista sui filoni poetici della prima metà del XX secolo. Anche in Arie e ricordi, che rappresenta la prima stagione del poeta salernitano (1929-1941), le sue figurazioni ruotano intorno alla memoria, riaffiorano dalle inquietudini e dai sogni adolescenziali. La successiva produzione lirica risentirà dell’esperienza bellica. La morte, topos trasfigurato nei componimenti del passato, si disvela nelle sue connotazioni più drammatiche. Gatto si avvicina al dolore degli uomini e nella successiva raccolta, Il capo sulla neve, il poeta registra le esperienze degli anni 1943-1947. Nel 1950 Mondadori pubblica lo Specchio, volume che raccoglie le poesie scritte durante trentacinque anni di attività. La storia delle vittime in cui Gatto trasferì Amore della vita e Il capo sulla neve, arriva dopo il volume Poesie che raccoglie le liriche composte dal 1929 al 1941. Nello Specchio vengono incluse le Nuove poesie del 1950 in cui erano state inserite le liriche composte dal 1941 al 1949. Esse comprendevano sia i componimenti della Resistenza di matrice civile e politica, sia quelli concernenti la vita privata e l’esperienza amorosa di Gatto. In Poesie d’amore risulta marcata l’ispirazione al poeta Rimbaud, tanto amato dal Nostro. Ma la raccolta di poesie che ha attratto maggiormente l’attenzione della critica e dei lettori, è La forza degli occhi (1950-1953). In essa si fondono ermetismo e surrealismo. Questo volume segna la raggiunta maturità poetica di Gatto. La visionarietà diviene il mezzo espressivo capace di rivelare il talento del poeta. Alla raccolta Osteria flegrea, poesie composte dal 1954 al 1961, segue la raccolta più corposa della sua intera produzione, Rime di viaggio per la terra dipinta (1968-1969), rime scritte e raffigurate pittoricamente in acquarelli. In esse si coglie un “senso di insistito giuoco metrico-stilistico e dell’immaginazione (o piuttosto dell’intelletto) mentre un ruolo quasi secondario viene affidato al sentimento” Il motivo dell’amore Il motivo dell’amore è cantato in tutti i modi e percorso in ogni direzione e, anche se a tratti ha intonazioni classicheggianti, non perde mai il valore fonico della parola che diventa un momento a sé di suggestione. Nel periodo che va dal 1940 al 1941 vi è un rifacimento delle poesie precedenti che faranno parte di una raccolta edita da Vallecchi nel 1941 sotto il nome di Poesie che rimarranno immutate fino alla stesura del 1961 quando, dando un ordine maggiore allo stesso volume esse toccheranno il punto di maggiore "cantabilità" nella poesia di Gatto. Una delle immagini tra le più vive della poesia contemporanea possiamo trovarla nella poesia Oblio dove il poeta esprime la gioia della vita fatta memoria e festa alle quali egli sente di appartenere: Tutto si calma di memoria e resta il confine più dolce della terra, una lontana cupola di festaIn questi versi si assiste al dileguarsi dell’analogia stretta dei primi libri e in Amore della vita, il libro del 1944, il poeta riuscirà a esprimere una freschezza insolita in un momento di retorica dedicata alla Resistenza. Gatto, infatti, aderisce alla poesia della Resistenza, commosso dallo spirito civile e politico degli italiani e nella raccolta successiva, Il capo sulla neve, egli avrà parole di forte commozione per i “Martiri della Resistenza” ed esprimerà nelle poesie una assorta meditazione che ha il raro dono dell’immediatezza. Gatto è dunque un poeta di natura e d’istinto che ha conosciuto durante la guerra e nel dopoguerra un serio rinnovamento sia nei contenuti che nella forma aprendosi a strutture narrative più complesse che fondono autobiografismo lirico e partecipazione storica. Nello scorrere l’ultima produzione di Gatto, Rime di viaggio per una terra dipinta, e Desinenze, opera postuma uscita un anno dopo la sua morte, resta l’immagine di un poeta coinvolto dal tumulto della vita, ma sempre lieto di fissare nella memoria ogni emozione in una lingua ricca di motivi e di sorprese nuove. L’esperienza milanese Alfonso Gatto appartiene a quel folto gruppo di intellettuali provenienti dal Sud Italia, tra i quali il celebre critico d’arte Edoardo Persico ed Elio Vittorini, che negli anni trenta, giunsero a Milano, una Milano centripeta, punto di confluenza delle intelligenze più fervide dell’epoca. Dal 1936 al 1938 Gatto collaborò al periodico Casabella con una serie di articoli nella rubrica Cronaca dell’architettura; egli partiva dai temi concernenti l’architettura per poi trattare di argomenti di cultura generale, mentre gli articoli di fondo erano tenuti da Giuseppe Pagano. Edoardo Persico fu una figura importantissima nella vita del poeta salernitano, e, quando morì, nel 1945, lasciò un patrimonio di idee nuove e illuminanti di cui faranno tesoro Raffaello Giolli e Alfonso Gatto. Infatti, entrambi tentarono di sviluppare e fissare, quella relazione artistica che Persico aveva instaurato tra Frank Lloyd Wright e Paul Cézanne, vale a dire, una palese identificazione tra architettura organica e impressionismo. La ricerca intellettuale di Gatto lo condurrà a scrivere Prefazione a Frank Lloyd Wright, Architettura organica in cui Gatto intesse una immagine di Wright come architetto-poeta o, per usare un’espressione con cui lo stesso architetto statunitense aveva intitolato una sua opera, come “Disconosciuto legislatore del mondo”. "Wright è più di un architetto", scrive Gatto, “gli si deve riconoscere una statura di creatore– l’unica di architetto che oggi ci sia nel mondo– congiunta ad un’effettiva forza di tecnico e ad una ispirata passione umanitaria”. Alfonso Gatto pittore e critico d’arte La profonda sete di conoscenza condusse il poeta a soddisfare la propria attitudine alla pittura, con la realizzazione di vari acquerelli e disegni, nonché alla elaborazione di numerosissimi Cataloghi per pittori di grande caratura, come Ottone Rosai, Renato Guttuso, Filippo de Pisis, Giuseppe Zigaina, Mino Maccari, Corrado Cagli. La compagna Graziana Pentich, ha raccolto negli anni Novanta, in un volume intitolato “I colori di una storia”, disegni, dipinti poesie di Gatto, unitamente alle sue opere di pittura e ai teneri disegni e acquerelli del figlioletto Leone. In esso è scandita la storia di una vita in cui l’arte risulta essere il linguaggio quotidiano più congeniale ad esprimere e raccontare le esperienze dei tre protagonisti, dalla nascita alle prime parole di Leone, ai continui spostamenti fisici del poeta, il quale incorpora l’una dentro l’altra le città conosciute lungo il cammino in un’unica grande città che ha l’anima del Sud. Nel racconto sono molti gli autoritratti del poeta, realizzati tra il 1946 e il 1958, da lui stesso definiti “autoritratti-maschera”: l’autoritratto sul giornale Avanti!, quello al Craja (il caffè milanese, ritrovo di artisti e intellettuali negli anni Trenta e Quaranta, situato in Piazzetta Filodrammatici vicino al Teatro alla Scala) e i tre autoritratti detti “auto istantanee”, dove Gatto si raffigurò come un clown. La Pentich parla a tal proposito di una “coincidenza di sentimenti con i temi circensi sublimati da Picasso nelle figure del suo periodo blu e rosa”. L’eclettismo di Gatto è anche il risultato della sua personale concezione delle Arte, concezione per certi versi rinascimentale, in contrasto con quella a lui contemporanea che voleva la separazione tra i vari ambiti artistici. Opere principali Poesia Isola, Napoli 1932 Morto ai paesi, Modena 1937 Poesie, Milano 1939 (nuova edizione, Firenze 1943) L’allodola, Milano 1943 La spiaggia dei poveri, Milano 1944 Amore della vita, Milano 1944 La spiaggia dei poveri, Milano 1944 (nuova edizione Salerno 1996) Il sigaro di fuoco. Poesie per bambini, Milano 1945 Il capo sulla neve, Milano 1947 Nuove poesie 1941-49, Milano 1949 La forza degli occhi, Milano 1954 La madre e la morte, Galatina 1959 Poesie 1929-41, Milano 1961 Osteria flegrea, Milano 1962 Il vaporetto. Poesie, fiabe, rime, ballate per i bambini di ogni età, Milano 1963 (nuove edizioni Salerno 1994 e Milano 2001) La storia delle vittime, Milano 1966 Rime di viaggio per la terra dipinta, Milano 1969 Poesie 1929-69, Milano 1972 Poesie d’amore (1941-49; 1960-72), Collezione Specchio, Milano, Mondadori, 1973, ISBN 978-88-04-10585-5. Lapide 1975 ed altre cose, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1976. Desinenze, Milano 1977 Poesie, a cura di F. Napoli, Milano, Jaca Book, 1998, ISBN 978-88-16-52009-7. Tutte le poesie, a cura di Silvio Ramat, Collana Oscar grandi classici n.103, Milano, Mondadori, 2005, ISBN 978-88-04-53347-4. Tutte le poesie (nuova edizione ampliata), a cura di Silvio Ramat, Collana Oscar moderni n.103, Milano, Mondadori, 2017, ISBN 978-88-04-65960-0. Prosa La sposa bambina, Firenze, 1943; nuova ed., Firenze 1963; Salerno, Roma, 1994 La coda di paglia, Milano, 1948; nuova edizione, Salerno, Roma, 1995 Carlomagno nella grotta. Questioni meridionali, Milano, 1962; nuov ed., Firenze 1974 (come Napoli N.N.); Salerno, 1993 Le ore piccole (note e noterelle), Salerno, 1975 Parole a un pubblico immaginario e altre prose, Pistoia, 1996 Il signor Mezzogiorno, Napoli, 1996 Il pallone rosso di Golia. Prose disperse e rare e l’inedito «Bagaglio presso», Milano, 1997 L’aria e altre prose, Pistoia, 2000 Diario d’un poeta, Napoli, 2001 La pecora nera, Napoli, 2001 La palla al balzo– un poeta allo stadio, Limina, 2006 Pensieri, a cura di F. Sanguineti, Torino, Nino Aragno, 2016 Teatro Il duello, Milano 1944; nuova ed., Salerno, 1995 Filmografia Alfonso Gatto ha anche avuto diverse parti in alcuni film. In Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano aveva la parte di un conduttore di treni. Altre parti ha avuto in due film di Pier Paolo Pasolini: in Il Vangelo secondo Matteo (1964) recitava la parte dell’apostolo Andrea, in Teorema (1968) la parte di un dottore. Altre parti ha avuto in Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi dove era Nocio e in Caro Michele (1976), di Mario Monicelli, tratto dall’omonimo romanzo di Natalia Ginzburg, dove interpretava il padre di Michele. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Alfonso_Gatto

Mario Luzi Mario Luzi

Mario Luzi (Castello di Firenze, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005) è stato un poeta e scrittore italiano. In occasione del suo novantesimo compleanno fu nominato senatore a vita della Repubblica Italiana. Biografia Nato a Castello (Firenze), allora frazione di Sesto Fiorentino, da genitori originari di Semproniano nella zona del Monte Amiata in provincia di Grosseto, trascorre l’infanzia a Castello, frequentando qui i primi anni di scuola. Nel 1926, in seguito al trasferimento del padre a Rapalano Terme in provincia di Siena, si trasferisce a casa dello zio Alberto a Milano dove rimane per solo un anno; nel 1927 ritorna a Rapalano Terme dalla famiglia per poi, nel 1929, ritornare nella sua città natale e terminare a Firenze gli studi presso il liceo classico “Galileo”. Sempre a Firenze si laurea in letteratura francese con una tesi su François Mauriac. Sono anni, questi, importanti per l’esordio poetico del giovane Luzi, che a Firenze stringe amicizie con giovani impegnati nella cultura ermetica, come Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, Carlo Bo, Leone Traverso e Cristina Campo, nonché l’importante e instancabile critico Oreste Macrì. Collabora alle riviste d’avanguardia come Il Frontespizio, Campo di Marte, Paragone e Letteratura. Esce nel 1935 la sua prima raccolta poetica La barca. Nel 1938 inizia l’insegnamento alle scuole superiori che lo porterà a Parma, a San Miniato e infine a Roma dove lavorerà alla Sovrintendenza bibliografica. Pubblica nel frattempo (1940) Avvento notturno. Nel 1945 ritorna a Firenze e in questa città insegna al liceo scientifico Leonardo da Vinci. Sono di questo periodo alcune importanti raccolte poetiche: nel 1946 Un brindisi e Quaderno gotico, nel n. 1 di Inventario, nel 1952 Onore del vero, Primizie del deserto e Studio su Mallarmé. Nel 1955 gli viene assegnata la cattedra di letteratura francese alla Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri di Firenze. Nel 1963 pubblica Nel magma, nel 1965 Dal fondo delle campagne e nel 1971 Su fondamenti invisibili ai quali fa seguito Al fuoco della controversia nel 1978, Semiserie nel 1979, Reportage, un poemetto seguito dal Taccuino di viaggio in Cina nel 1985 e nello stesso anno Per il battesimo dei nostri frammenti. Nel 1978, per l’opera Al fuoco della controversia, gli è stato assegnato il Premio Viareggio. Il 1983 vede la pubblicazione de La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti. È inoltre autore di importanti saggi e curatore di numerose antologie (tra cui L’idea simbolista). Fu anche un critico cinematografico nei primi anni '50: curò le recensioni di quasi 80 pellicole (tra le quali citiamo Roma ore 11 di Giuseppe De Santis e Signori, in carrozza! di Luigi Zampa) che nel 1997 furono raccolte in un libro.Conoscitore delle filosofie e religioni orientali e delle tecniche di meditazione. Il 14 ottobre 2004, in occasione del suo novantesimo compleanno è stato nominato senatore a vita dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Muore a Firenze pochi mesi dopo, il 28 febbraio 2005. Ai funerali solenni il 2 marzo, ha partecipato lo stesso Carlo Azeglio Ciampi. Alla memoria di Luzi è stata posta una lapide nella basilica di Santa Croce di Firenze, tra le spoglie dei grandi della storia tra i quali Michelangelo Buonarroti, Vittorio Alfieri, Galileo Galilei e il cenotafio di Dante Alighieri. È sepolto nel cimitero di Castello (Firenze). La sua memoria è custodita dal poeta fiorentino Walter Rossi, amico e confidente di Luzi negli ultimi anni della sua vita. Formazione e poetica Mario Luzi occupa un posto particolare nella famiglia dei cosiddetti ermetici e, insieme a Piero Bigongiari e a Alessandro Parronchi, si può dire che costituisca il culmine dell’ermetismo fiorentino. La prima apparizione di Luzi avvenne alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze dove scelse l’affiatato circolo di quel momento composto da alunni e professori che si ritrovavano per parlare e discutere senza che si avvertisse la questione degli anni o della educazione. Un clima serio e sereno al quale il giovane e timido Luzi partecipava. Luzi viveva a quei tempi in famiglia ed era arrivato alla letteratura che aveva avuto partita vinta sulla sua prima scelta universitaria, la Facoltà di Legge. Il tema che domina nella poesia di Luzi è quello della celebrazione drammatica dell’autobiografia dove viene messo in risalto il drammatico conflitto tra un “Io” portato per le cose sublimi e le scene terrestri che gli vengono proposte. La prima fase Il primo momento della poesia di Luzi, quella più propriamente ermetica, va dagli esordi con La barca del 1935 fino, in modo approssimativo, a Quaderno gotico con al centro Avvento notturno. In questo periodo l’ideologia del poeta è improntata sul Cristianesimo rinforzata dal recente pensiero cristiano francese, mentre, sul piano letterario, prosegue la linea “orfica” appartenente alla lirica moderna che ha come archetipo Mallarmé e che retrocede fino a Coleridge e al suo visionario romanticismo, senza peraltro dimenticare, anzi recuperandola, la tradizione italiana più vicina, cioè quella di Arturo Onofri e di Dino Campana, e non estraneo alla lezione surrealista d’oltralpe di Paul Éluard. In questi termini Avvento notturno (1940) è un libro che, anche se apparentemente sembra riportarci con il suo tono al nostro decadentismo liberty di inizio secolo, contiene in verità, nella forza dei suoi endecasillabi, un forte strumento che evidenzia l’influenza dei surrealisti. Le immagini dei paesaggi lunari, delle città spettrali, dei marmi e delle pietre preziose, degli angeli lacrimanti e delle chimere che riempiono questi versi, niente o poco hanno realmente a che fare con le immagini liberty o con la mistica di Arturo Onofri, grazie all’uso di un lessico che, se pure impreziosito da suggestioni dannunziane, mantiene il nitore umanistico-toscano esaltandolo. La tensione massima dei versi risulterà nella raccolta Un brindisi (1946), ma già nelle liriche datate 1940-'44 (Quaderno gotico) si sente una più matura esperienza di letture europee, come quelle derivate da Rilke e da George, quest’ultimo, tradotto da Leone Traverso, caro amico di Luzi. La seconda fase Il secondo e centrale momento della poesia di Luzi comprende, grosso modo, le tre raccolte Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), e Dal fondo delle campagne (1965) fino a Su fondamenti invisibili (1971) nelle quali il poeta raggiunge i suoi più alti risultati. La raccolta “Nel magma” (1963), inoltre, costituisce una tappa importantissima per l’intera poesia italiana, che si evolve verso una fase inclusiva, nella quale la realtà cittadina e del boom economico trovano definitivamente cittadinanza poetica. Oltre ad un rinnovamento di carattere tematico si assiste ad un rinnovamento anche formale e di impostazione strutturale: ad un discorso poetico in chiave monologica si sostituisce il modulo dialogico e conseguentemente si assiste ad un’intrusione sempre maggiore di strategie stilistiche tese alla mimesi del parlato. I dialoghi con l altro, molto spesso figure femminili indistinte e sovrapposte al doppio dell io lirico, costituiscono momenti di svolta, di autoprocesso e difesa dei valori fondativi della poesia, da Luzi strenuamente difesi contro un mondo (quello del dominio della città,del lavoro e della teleologia dell utile) che sembra non prevedere più spazi per la poesia e per il poeta. Quello che prima era soprattutto atteggiamento letterario, in questi componimenti diventa vera esperienza dell’esistenza e il verso, pur non perdendo nulla della sua sensualità, acquista in tristezza e inquietudine diventando un vero verso in movimento. Questa inquietudine si legge nella descrizione del paesaggio (un paesaggio aspro e tetro, perennemente corroso dal vento e visitato raramente da vuote comparse umane) e nella ricerca assillante di un collegamento tra essere e divenire, mutamento e identità, nella speranza incerta che possa essere lenita la penosa insensatezza del vivere. La terza fase L’ultima poesia di Luzi presenta una modifica di stile più prosastico e i contenuti si sono maggiormente aperti ai ricordi dell’adolescenza, alla descrizione di ambienti quotidiani vicino a quella di paesaggi esotici. Ed è proprio alla lettura di questa sua ultima poesia, dal Fuoco della controversia che ricevette il Premio Viareggio nel 1978 a Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), che si comprende che la storia del poeta ha attraversato una profonda opera di identificazione che, partita dai momenti iniziali di assoluta partecipazione alle forme dell’individualismo spirituale, è riuscita a creare un aggancio reale a quelli della prima e seconda maturità. Contemporaneamente alla 'produzione’ lirica si affianca anche la drammaturgia. Mario Luzi è anche autore di testi teatrali. Dal primo che è “Pietra Oscura” (1946) all’ultimo “Il fiore del dolore” (2003) corrono quasi sessant’anni di teatro. Tra questi estremi ci sono i drammi “Il libro di Ipazia”, “Rosales”, “Hystrio”, “Il Purgatorio la notte lava la mente”, tutti compresi nell’edizione Garzanti. A questi testi seguono “Ceneri e ardori” e "Felicità turbate" del 1995 e 1997, del 1999 sono “Opus Florentinum” e “La passione. Via Crucis al Colosseo” (1999). Mario Luzi ha sempre dimostrato una umiltà d’animo come pochi dando apertamente la sua disponibilità per interviste e dibattiti durante i quali ha sotteso ossequiosità al dialogo nonché apertura e confronto dialettico. Sono stati numerosi gli studenti ai quali ha concesso interviste durante gli ultimi anni della sua vita. Molti di questi studenti provenivano dalle più disparate zone d’Italia. Opere Poesia * La barca, Modena, Guanda, 1935. * Avvento notturno, Firenze, Vallecchi, 1940. * Biografia a Ebe, Firenze, Vallecchi, 1942. Prosa poetica * Un brindisi, Firenze, Sansoni, 1944. * Quaderno gotico, Firenze, Vallecchi, 1947. * Primizie del deserto, Milano, Schwarz, 1952. * Onore del vero, Venezia, Pozza, 1957. * Il giusto della vita, Milano, Garzanti, 1960. Tutte le poesie fino al 1960. * Nel magma, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1963; Milano, Garzanti, 1966. * Dal fondo delle campagne, Torino, Einaudi, 1965. * Su fondamenti invisibili, Milano, Rizzoli, 1971. * Al fuoco della controversia, Milano, Garzanti, 1978. * Semiserie, Salerno, Il Catalogo, 1979. * Reportage. Un poemetto; seguito dal Taccuino di viaggio in Cina. 1980, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1980. * La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983. * Per il battesimo dei nostri frammenti, Milano, Garzanti, 1985. * Frasi e incisi di un canto salutare, Milano, Garzanti, 1990. ISBN 88-11-63473-3. * Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano, Garzanti, 1994. ISBN 88-11-63471-7 * Sotto specie umana, Milano, Garzanti, 1999. * Parlate, Novara, Interlinea, 2003. ISBN 88-8212-452-5. * Tempi, con immagini di Samuele Gabai, Como, Edizioni Lythos, 2003. * Dottrina dell’estremo principiante, Milano, Garzanti, 2004. ISBN 88-11-63044-4. * Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime, Milano, Garzanti, 2009. ISBN 978-88-11-63212-2. * Poesie ultime e ritrovate, Milano, Garzanti, 2014. ISBN 978-88-11-81072-8. Teatro * Pietra Oscura, Porretta Terme, I quaderni del battello ebbro, 1994, seconda ed. 2004, scritto nel 1947. * Ipazia. Poemetto drammatico, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1972. * Libro di Ipazia, Milano, Rizzoli, 1978. * Rosales, Genova, Edizioni del Teatro di Genova, 1983. * Hystrio, Milano, Rizzoli, 1987. ISBN 88-17-79012-5. * Il purgatorio. La notte lava la mente. Drammaturgia di un’ascensione, Genova, Costa & Nolan, 1990. ISBN 88-7648-103-6. * Io, Paola, la commediante, Milano, Garzanti, 1992. ISBN 88-11-64016-4. * Teatro, Milano, Garzanti, 1993. ISBN 88-11-66986-3. * Felicità turbate, Milano, Garzanti, 1995. * Ceneri e ardori, Milano, Garzanti, 1997. ISBN 88-11-64032-6. * Opus Florentinum, Passigli, Firenze, 2000. * Il fiore del dolore, Edizioni della Meridiana, 2003. Saggi * L’Opium chrétien, Modena, Guanda, 1938. (su Mauriac) * Un’illusione platonica e altri saggi, Firenze, Edizioni di rivoluzione, 1941; Bologna, Boni, 1972. * L’inferno e il limbo, Firenze, Marzocco, 1949; Milano, Il saggiatore, 1964. * L’idea simbolista, Milano, Garzanti, 1959; 1976. * Lo stile di Constant, Milano, Il Saggiatore, 1962. * Tutto in questione, Firenze, Vallecchi, 1965. * Vicissitudine e forma, Milano, Rizzoli, 1974. * Discorso naturale, Siena, Messapo, 1980; Milano, Garzanti, 1984. * Dante e Leopardi, o Della modernità, Roma, Editori riuniti, 1992. ISBN 88-359-3637-3. * Naturalezza del Poeta. Saggi critici, Milano, Garzanti, 1995. ISBN 88-11-59850-8. * Prima semina. Articoli, saggi e studi, 1933-1946, Milano, Mursia, 1999. ISBN 88-425-2495-6. * Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura, Milano, Garzanti, 2002. ISBN 88-11-59729-3. Altri testi * Spazio stelle voce. Il colore della poesia, Milano, Leonardo, 1992. ISBN 88-355-0190-3. * Sperdute nel buio. 77 critiche cinematografiche, testi raccolti e radunati da Annamaria Murdocca, Blu cobalto, 1995; Milano, Archinto, 1997. ISBN 88-7768-181-0. * Giustizia e politica tra prima e seconda Repubblica, con Rocco Buttiglione, interviste di Giorgio Tabanelli, Formello, SEAM, 1998. ISBN 88-8179-076-9. * Tra poesia e vita. Antologia poetica, a cura di Marco Zulberti, Trento, U.C.T., 2006. ISBN 88-86246-81-1. * Le nuove paure. Conversazione con Renzo Cassigoli, Antella, Passigli, 2003. ISBN 88-368-0804-2. * Il testimone discreto. Per Mario Luzi in occasione dei novant’anni, a cura di Riccardo Donati, con un intervento di Mario Luzi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004. ISBN 88-87048-69-X. * Mario Luzi: una voce dal bosco, a cura di Renzo Cassigoli, Roma, Nuova Iniziativa editoriale, 2005. * Mario Luzi. Seminario sul teatro, incontro con il poeta, a cura di Emiliano Ventura, Roma, Fondazione Mario Luzi, 2012. ISBN 978-88-6748-001-2. Traduzioni * William Shakespeare, Riccardo II, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1966 [Teatro Stabile di Torino, 1965]. * Samuel Taylor Coleridge, Poesie e Prose, Milano, Mondadori, 1973. * Ostad Elahi, Pensieri di luce, Milano, Mondadori, 2000. Memoria * Le associazioni che preservano e diffondono le opere e la memoria del poeta fiorentino sono: Fondazione Mario LuziEnte che raccoglie le testimonianze e le donazioni di privati (carteggi, ecc.), che vanno a costituire un unico Fondo. Organizza dal 2011 il «Premio Internazionale Mario Luzi» (fondato nel 2005). L’ente provvede alla pubblicazione di testi luziani inediti e alla riedizione di lavori critici. * Nel 2015 il Fondo Luzi, dichiarato di interesse culturale nel 2011, è stato acquistato dalla Giunta della Regione Toscana e depositato all’Archivio contemporaneo del Gabinetto Vieusseux. Centro Studi Mario Luzi “La Barca”[1]Il suo scopo raccogliere, custodire e divulgare oltre diecimila volumi di notevole valore, donati dal poeta al comune di Pienza, di cui era cittadino onorario. Fondato nel luglio 1999, prende il nome dall’opera d’esordio di Luzi. Il Centro studi “La Barca” raccoglie anche importanti manoscritti, lettere e carte private del Maestro, e rappresenta un insostituibile punto di riferimento per chiunque voglia accedere ad una parte del mondo finora sconosciuto del poeta nonché di molti altri scrittori e personalità della cultura novecentesca, non solo italiana, legati a Luzi da rapporti epistolari. * Il Centro studi è curato da un comitato scientifico, di cui fanno parte noti studiosi dell’opera luziana e da un comitato operativo. * Associazione Mendrisio Mario Luzi poesia del mondoIl sodalizio svizzero ha digitalizzato numerose opere del poeta, che sono fruibili gratuitamente online. AltroNel 2014 sono state tante le commemorazioni per celebrare il centenario della nascita del poeta. Tra queste, anche il Comune di Siena ha voluto ricordarlo dedicandogli il Palio del 16 agosto, dipinto dall’artista Ivan Dimitrov. Nel medesimo anno va ricordato il convegno, dedicato al poeta, che si è tenuto a Buonconvento, Mario Luzi 1914-2014 cui ha fatto da cornice la mostra fotografica di Daniele Sasson e Caterina Trombetti e le testimonianze di Carlo Fini, Luigi Oliveto, Marco Brogi e la stessa Caterina Trombetti. Va inoltre ricordato il documentario In Toscana. Un viaggio in versi con Mario Luzi di Marco Marchi con la regia di Bartoli e Silvia Folchi, promosso dalla Regione Toscana Nello stesso anno del Centenario (2014) si sono tenuti in varie parti d’Italia convegni e seminari dedicati alla figura e alla poesia di Mario Luzi.La rivista Poesia, mensile internazionale di cultura poetica, edita da Crocetti ha dedicato al poeta il numero 159 del marzo 2002 e il numero 187 dell’ottobre 2004. * La rivista Mosaico gli ha dedicato un numero monografico nel maggio del 2010, dal titolo “Mario Luzi e la voce della poesia”. Dal 2017, viene inoltre pubblicata “Luziana”, Rivista internazionale di studi su Mario Luzi e il suo tempo a cura di C. Carena, P. Baioni e S. Verdino, in collaborazione e con la partecipazione dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. * Strade intitolate a Mario Luzi sono a Firenze, Siena, Pisa. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Luzi

Amelia Rosselli Amelia Rosselli

Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996) è stata una poetessa, organista ed etnomusicologa italiana che ha fatto parte della “generazione degli anni trenta”, insieme ad alcuni dei più conosciuti nomi della letteratura italiana. Biografia Amelia Rosselli nacque a Parigi, figlia dell’esule antifascista Carlo Rosselli, teorico del Socialismo Liberale, e di Marion Cave, nata in Inghilterra e attivista del partito laburista britannico. Nel 1940, dopo l’assassinio del padre e dello zio, ordinato da Mussolini e Ciano, ad opera delle milizie fasciste (cagoulards) in Francia (1937), esulò con la famiglia, esperienza che determinò il carattere apolide e insieme personalissimo della sua opera. Amelia Rosselli si trasferì dapprima in Svizzera e quindi negli Stati Uniti. Compì all’estero (senza regolarità) studi letterari, filosofici e musicali, ultimandoli in Inghilterra, poiché in Italia, dove era tornata nel 1946, non le poterono essere riconosciuti. Negli anni quaranta e cinquanta si occupò di teoria musicale, etnomusicologia e composizione, trasponendo le sue ricerche in alcuni saggi. Nel 1948 cominciò a lavorare come traduttrice dall’inglese per alcune case editrici di Firenze e Roma e per la Rai; nel frattempo continuò a dedicarsi a studi letterari e filosofici. In questi anni cominciò a frequentare gli ambienti letterari romani (tramite gli amici Carlo Levi e Rocco Scotellaro, conosciuto nel 1950) e gli artisti che avrebbero successivamente dato vita all’avanguardia del Gruppo 63. Negli anni sessanta si iscrisse al PCI e cominciò a pubblicare i suoi testi principalmente su riviste, attirando l’attenzione di Zanzotto, Raboni e Pasolini. Nel 1963 pubblicò su Il Menabò ventiquattro poesie. L’anno successivo uscì la sua prima raccolta di poesie, Variazioni belliche, edita da Garzanti, e nel 1969 la raccolta Serie ospedaliera, comprensiva del poemetto di difficile gestazione e inedito La Libellula. Nel 1966 iniziò a pubblicare numerose recensioni letterarie su giornali come Paese Sera e L’Unità. Nel 1981 uscì Impromptu, un lungo poema diviso in tredici sezioni, e nel 1983 Appunti sparsi e persi, scritti tra il 1966 e il 1977. Notevole anche la sua ricerca plurilinguistica in poesia (poesie e prose giovanili in francese e in inglese, la successiva raccolta in inglese Sleep). Alcune prose italiane, autobiografiche, di vari periodi, furono raccolte e pubblicate nel 1990, con il titolo Diario ottuso. La morte della madre (avvenuta nel 1949) e altre drammatiche vicende biografiche le causarono ricorrenti esaurimenti nervosi. Non accettò mai la diagnosi di schizofrenia paranoide che le venne fornita da cliniche svizzere e inglesi, ma parlò per lo più di lesioni al sistema extrapiramidale, connesse alla malattia di Parkinson, che le si manifestarono già a 39 anni. È rimasta una figura di scrittrice unica per il suo plurilinguismo e per il tentativo di fondere l’uso della lingua con l’universalismo della musica. Ha vissuto gli ultimi anni della sua vita a Roma, nella sua casa a via del Corallo, dove è morta suicida l’11 febbraio 1996 per cause connesse ad una grave depressione. La data del suicidio segna forse volontariamente un nesso indelebile con quella di Sylvia Plath, autrice che la Rosselli tradusse e amò, dedicandole anche diverse pagine critiche. Su Amelia Rosselli e la sua poesia Elogio del fuoco davanti alla bara di Amelia Rosselli, Roma, Casa della cultura, 16 febbraio 1996Il fuoco riscalda. A leggere la poesia di Amelia, la temperatura del nostro corpo si altera un po’. Talvolta si abbassa, più spesso si innalza. E non diversi effetti scaturivano dall’ascolto, dalla sua viva voce di straordinaria lettrice. […] La sua voce era un basso profondo, una musica che faceva lievitare la fondamentale tra le parole rese singole e compenetrate le une nelle altre. […] Mai un grido nella sua recitazione, eppure quanti soprassalti nelle sue poesie! Per lei hanno nominato Campana, Rimbaud. Ma nulla le era più estraneo dello sregolamento dei sensi, dello sfrenato abbandonarsi all’altra voce che urge quando la ragione tace. In lei parlano entrambe, la ragione della mente e quella che piove dall’Altrove, ma in una educata, civilissima convivenza che non dimenticheremo mai. Il fuoco illumina. La poesia di Amelia Rosselli è oscura eppure chiarissima. Certo, bisogna abituarvisi, come quando si entra da fuori in una stanza buia. All’inizio avanziamo cautamente, abbiamo paura di farci male, urtiamo negli spigoli, imprechiamo. Ma poi diventiamo come i gatti che vedono anche nelle tenebre. Come loro impariamo a sviluppare sensi normalmente inerti, latenti. La sua forma di conoscenza è la Pietà, un grande canzoniere d’amore, senza tracce di narcisismo. […] Il fuoco scotta. Con la Storia che le ha marchiato i suoi segni sul corpo, prima ancora che nella mente. Dietro la sua poesia-amore avanzano la persecuzione politica, l’assassinio, la tragedia del conflitto più violento di un secolo ormai alla fine. La sua lingua, dissennatamente poliglotta, ne è stata disarticolata, ma quanto dilatata! Con Amelia se ne va l’ultima vittima di un secolo divoratore dei suoi poeti. Un’epoca che ostenta indifferenza verso la poesia e che continua a nutrirsene avidamente, cannibalisticamente. Marina Cvetaeva diceva che con la poesia bisogna comportarsi come con le creature amate. Si sta con loro finché non sono loro a lasciarci. E chi resta da solo con il dolore e il lutto non dimenticherà la gioia della dedizione fino al sacrificio finale.(Biancamaria Frabotta, Elogio del fuoco, in Quartetto per masse e voce sola, Roma, Donzelli, 2009, pp. 65-67)




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