O tu che vivi sola, sul confine
della foresta ove sei nata, e siedi
d’un cedro all’ombra centenaria, i piedi
ignudi e sciolto sulle spalle il crine:
tu che hai negli occhi la corrente azzurra
del fiume che laggiù splende fra gli elci,
e, nascosta fra l’alte umide felci,
sogni, ascoltando il bosco che susurra:
dammi per questa sete che m’uccide
un sorso:—l’acqua del tuo pozzo invoco,
quella che attingi tu, mentre con roco
gemito il secchio discendendo stride.
Tu che ti stendi per dormir sull’erba
aulente di viole e d’innocenza,
e distingui semenza da semenza
e la mandorla sbucci quand’è acerba:
tu che legger non sai ne’ libri impuri
che l’uomo scrisse per offender l’uomo,
e rassembri in tua forza ad un indômo
puledro, che di nulla s’impauri:
lascia ch’io prenda la metà dell’aria
che tu respiri, la metà del frutto
che stai mordendo:—nel cammino io tutto
il mio bene ho perduto, o solitaria.
Io l’ho perduto e più non lo ricerco,
troppo imparai quanto quel ben sia vano:
tu che t’ascondi ad ogni sguardo umano,
dammi la sola voluttà che cerco.
Con l’acqua del tuo pozzo una freschezza
versami nella gola, che mi renda
qual letto di ruscello, e diaccia scenda
ad annientarmi in cuore ogni tristezza.
Dammi l’oblìo di me, fammi novella
come in Aprile un cespo di mentastri,
tu, che misteri di foreste e d’astri
sai, ma null’altro sai, dolce sorella.